Roberto Roggero – Posto che una guerra si vince o si perde prima di combattere (come affermava già Sun Tzu, filosofo cinese vissuto cinque secoli prima di Cristo), c’è da chiedersi perché e quanto convenga ancora portare avanti il conflitto nello Yemen, visto che di soluzioni ne esistono, drastiche o meno, soprattutto per alleviare le condizioni di una popolazione allo stremo. Il tutto si riduce a una semplice questione: cui prodest?
Lo scorso 22 marzo, l’Arabia Saudita ha proposto una iniziativa comune per porre fine alla guerra, a cominciare da un cessate-il-fuoco, ma Ansar Allah, ovvero il movimento Houthi, ha rifiutato, perché ritiene di non avere garanzie sulla richiesta fine del blocco saudita sugli scali internazionali, in primis l’aeroporto di Sanaa e i porti di Hodeidah e Al-Salif, dove transita oltre l’80% delle importazioni. Da considerare che, attualmente, le forze houthi sono in una fase offensiva, ed è ben poco probabile che pensino di fermarsi per dialogare, poiché sarebbe una dimostrazione di debolezza. Marib è la città che in questi giorni sta subendo un vero e proprio assedio, ma anche in alcuni altri territori le risorse del presidente Mansur Hadi (che si trova a Riyadh) non sono in buone condizioni. La guerra, tuttavia, ha estremamente fiaccato uno dei Paesi già più poveri dell’intera area, e anche l’Iran ha manifestato pieno sostegno a un piano di pace che metta fine a violenze e disastri.
La situazione è agghiacciante, mentre i media occidentali continuano a glissare e anche in Yemen, oltre a guerra, carestie, bombardamenti, violenze e altro per peggio, è arrivata anche la pandemia di Covid-19, le cui vittime si vanno ad aggiungere a quelle del conflitto tutt’altro che concluso.
Il Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU afferma che circa 20mila persone siamo morte o ferite in attacchi aerei, e che le vittime totali siamo oltre le 50mila.
La posizione geopolitica dello Yemen ha trascinato in campo diverse potenze, in una spirale che ha causato (e causerà chissà per quanto) enormi disagi alla popolazione, buona parte della quale, per necessità o convinzione, ha imbracciato le armi. Non di rado, in un Paese poverissimo, la paga di un combattente contribuisce a mantenere una numerosa famiglia, specie quando la comunità internazionale volge la testa dall’altra parte e sospende aiuti e programmi di sviluppo.
Solo pochissime organizzazioni rimangono oggi nello Yemen. Una di queste, dal 1989, è Medics Sans Frontieres, in attività in altri 70 Paesi, oggi in prima linea soprattutto per contrastare la pandemia di Covid che è arrivata anche nel Paese già stremato dalla guerra, e da altri flagelli.
A causa della ferrea censura e del blocco totale, è molto difficile reperire informazioni di prima mano, e le uniche fonti sono soprattutto i pochi operatori sanitari autorizzati a entrare o uscire dal Paese, dove, per essere esatti, si combattono più guerre oltre a quella conclamata e per conto terzi, visto che esistono profonde divergenze interne di origine tribale, religiosa, politica e sociale.
Sono passati oltre 30 anni da quando lo Yemen è stato unificato, ma le grandi potenze di riferimento non hanno cessato la loro attività, mentre il Paese è in balia del gruppo Ansar Allah e covo di terroristi provenienti da mezzo mondo.
Come spesso accade in crisi di difficile comprensione, anche in Yemen la matrice religiosa, fra Islam sciita e sunnita, gioca un ruolo importante, sebbene dietro ci siano motivi economici legati alle risorse, che vanno in blocco (salvo briciole) all’estero. Una situazione non molto diversa da quella in Siria, dove il conflitto dura da più tempo.
Dallo Yemen, quindi, notizie centellinate, ma da fonte certa. Quelle che vale la pena riportare non riguardano combattimenti e strategie geopolitiche, ma le condizioni della popolazione. Nei pochi posto di soccorso e intervento organizzato, si curano tutti, senza distinzione, ma un conto è soccorrere un combattente che volontariamente rischia la propria vita, un altro è un bambino colpito da un proiettile vagante o dai frammenti di una bomba a grappolo. Le poche informazioni parlano di bambini di un anno già mutilati da bombe o proiettili; donne in avanzato stato di gravidanza in condizioni terribili al parto, esposte a lesioni e infezioni fatali; un livello impressionante di mortalità infantile; vittime di frequenti incidenti stradali perché le già poche vie di collegamento sono state in gran parte bombardate e lasciate a sé stesse. I pochi medici, attivi soprattutto nell’ospedale di Al-Mokha, sono costretti a razionare farmaci, medicamenti e materiale sanitario in genere…mentre la comunità internazionale sversa uno spreco impressionante di medicinali e dotazioni ospedaliere. Al posto di soccorso di Al-Mokha, nel 2020 gli oltre 200 operatori di MSF (provenienti da molte parti del mondo) hanno curato, a vari livelli, circa 20mila persone.
Un dato conclusivo. E’ ben noto che la guerra non stia consumando solo lo Yemen o la Siria. Nel mondo ci sono oltre 75 milioni di bambini a rischio perché costretti in zona di combattimenti. Un livello preoccupante, se si pensa che anche 30 anni fa c’erano le guerre (…la prostituzione è solo il secondo mestiere più antico – ndr) ma i rapporti ufficiali parlano di meno di 10 milioni di minori coinvolti. Sono solo alcuni aspetti, di molti contenuti nel recente rapporto “Stop war against chindren”. Nei fatti, oggi è in pericolo il 18% dei 430 milioni di bambini che vive a meno di 50 km da aree di conflitto a livello globale, ovvero uno su sei.
Si dovrebbe imparare di più da persone, fra molti altri, come Denis Mukwege, Premio Nobel per la Pace 2018, che nel 1999 ha fondato il “Panzi Hospital” nella Repubblica Democratica del Congo: “Non avrei mai potuto immaginare che mi sarei trovato di fronte a così tanti casi di bambine vittime di violenze sessuali. La più giovane sopravvissuta che abbia mai curato aveva solo sei mesi quando è stata brutalmente aggredita…”. Non occorrono ulteriori commenti.
Dei 54 conflitti in corso a livello globale, 22 sono caratterizzati da violenze sessuali conclamate contro la popolazione civile. I Paesi più pericolosi da questo punto di vista sono Yemen, Somalia, Iraq, Siria, Colombia e Sud Sudan. Anche in Afghanistan, la maggior parte dei casi segnalati nel 2019 riguarda ragazzi, spesso sfruttati e ridotti in schiavitù.
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