Gianmarco Volpe (Agenzia Nova) - Le scelte determineranno gli sviluppi di questa guerra. In primo piano c’è quella di Putin. I suoi uomini si stanno impantanando in Ucraina, il morale è basso, le prospettive sono cupe. Il presidente russo può scegliere di spingere la sua guerra fino alle estreme conseguenze, provando a prendere Kiev e Odessa a costo di bruciare i cadaveri di decine di migliaia di coscritti nei forni crematori ambulanti che le truppe d’invasione si sono portati dietro per sgonfiare la portata simbolica dell’immagine delle bare che tornano a casa. E a costo di far durare il conflitto per anni, di renderlo insostenibile a una Russia già debilitata dalle sanzioni. Oppure può approfittare del primo momento utile per sedersi sul serio al tavolo dei negoziati, pur se in una condizione di debolezza. Il primo momento utile potrebbe arrivare dopo l’eventuale presa di Mariupol, che consentirebbe alla Russia di raggiungere un primo obiettivo strategico: aprire un corridoio terrestre tra il suo territorio e la Crimea annessa nel 2014. Potrebbe aprirsi, a quel punto, una finestra temporale finalmente valida per la diplomazia.
Il 9 maggio è il giorno della vittoria, una ricorrenza di grande importanza in occasione della quale i russi celebrano nella Piazza Rossa l’affermazione sovietica sulla Germania nazista nella Seconda guerra mondiale. Putin sarà tentato di chiudere la pratica entro quella data, magari spacciando per vittoria una mezza disfatta.
Ci sono altri leader che hanno influenza su quel che accade in Ucraina e le cui scelte potrebbero indirizzare Putin verso una strada o verso l’altra. Il primo tra questi è Xi Jinping. Il presidente cinese può scegliere di confermare il suo pieno sostegno al collega russo – assicurato il 4 febbraio in occasione del viaggio di quest’ultimo a Pechino per l’inaugurazione delle Olimpiadi invernali – oppure usare la sua influenza per spingere lo stesso a più miti consigli. È un’influenza non di poco conto: sul piano strategico, politico ed economico la Cina è l’unica, reale ancora di salvataggio per una Russia con cui l’Occidente ha tagliato i ponti. Xi, però, non sa che farsene di un alleato malconcio come il Putin che uscirà (se uscirà) da questa storia. Venerdì scorso ha parlato con Biden, è sempre difficile trarre indicazioni dalle ermetiche formule della diplomazia cinese, ma ho l’impressione che il colloquio sia andato meglio di quanto non traspaia dalle cronache di portavoce e commentatori. Non possiamo aspettarci dalla Cina virate a U in politica estera: il Partito comunista è un apparato di potere estremamente complesso e burocratizzato e a questo, in autunno, Xi Jinping dovrà rivolgersi per diventare il primo presidente della storia cinese a restare al potere per tre mandati. Dobbiamo guardare, più che alle dichiarazioni, alle azioni che Pechino compirà o non compirà, soprattutto lontano dai riflettori. Fornirà armi e denaro alla Russia? Eserciterà pressioni su Mosca?
Poi c’è Joe Biden, e con lui gli altri leader dell’Europa occidentale. Li metto insieme, perché i margini di manovra a disposizione sono pressappoco gli stessi e saranno al centro dell’agenda degli incontri del capo della Casa Bianca a Bruxelles a partire da domani. Vedo molti commentatori raccontare in televisione che Usa e Ue hanno interessi divergenti sul dossier ucraino, ma non è esattamente così. Perché se è vero che gli Stati Uniti pagano le conseguenze della crisi in misura minore rispetto all’Europa, è vero pure che comunque le pagano e che è loro interesse porre fine al conflitto il prima possibile. L’inflazione negli Usa è al 7,9 per cento (mai così da quarant’anni), il prezzo dei carburanti alla pompa è pure lievitato e i repubblicani sono pronti a inchiodare Biden sulla gestione dell’economia in vista delle elezioni di medio termine di novembre. E se le elezioni di medio termine vanno male, si chiude la finestra temporale a disposizione dei democratici per lasciare un’impronta sul futuro del Paese. La priorità numero uno di un presidente al primo mandato è garantirsi la sopravvivenza politica, con buona pace dei produttori di gas da scisto che pure trarranno profitto dalla crisi. Allargando lo sguardo, la priorità numero uno degli Stati Uniti resta il contenimento della Cina.
La strategia adottata fin qui da Biden e dai suoi alleati la conosciamo. Sanzioni alla Russia, armi all’Ucraina, nessun coinvolgimento diretto nel conflitto. La situazione, tuttavia, è in continua evoluzione e la guerra si articola su vari piani, uno dei quali è quello verbale. Dire che Putin è un criminale di guerra significa manifestare l’intenzione di portarlo davanti alla Corte penale internazionale de L’Aja al termine del conflitto, non un modo per convincere il presidente russo a scegliere la pur angusta via di un negoziato.
È quel che sabato scorso cercavo di spiegare ad Alan Friedman a L’aria che tira: se si vuol essere responsabili, bisogna smetterla di rincorrere Putin sul piano della retorica e offrirgli, anche turandosi il naso, una via d’uscita che gli consenta di vendere in patria una mezza vittoria. Anche se non è affatto detto che il presidente russo decida d’imboccarla.
Infine Zelensky, perché nessuna via d’uscita può passare alle sue spalle. Il presidente ucraino non sarà forse un gran politico, ma è certo un eccellente comunicatore. Come ogni attore che si rispetti, sa di dover rimodulare il suo messaggio a seconda dell’interlocutore e così, dinnanzi al parlamento italiano, ha evitato accuratamente parole divisive. Anche lui potrebbe aver presto davanti a sé scelte importanti e gravissime da compiere, e sembra esserne più consapevole di altri. Se si aprisse davvero una finestra per il negoziato, potrebbe essere chiamato a operare rinunce sanguinose e forse difficili da far digerire ai suoi connazionali.
Non si tratta della neutralità dell’Ucraina, che resta un falso problema, ma della cessione di territori. Sapendo che quel momento potrebbe presto arrivare, Zelensky ha chiarito in settimana che ogni concessione dovrà essere approvata attraverso referendum: un modo, forse, per prendere tempo e per condividere le responsabilità. Finora ha avuto il popolo dalla sua, ma quando si tratterà di scegliere il futuro del suo Paese la comunicazione non basterà più, e si riscoprirà irrimediabilmente solo.
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