Lorenzo Somigli - Dall’altra parte del Canale di Sicilia il 25 luglio si è aperta una fase di eccezione che merita di essere seguita attentamente, non solo per le ovvie ricadute sugli equilibri di quella porzione di Mare Nostrum, ma anche su temi cogenti per l’Italia e l’Europa quali la politica migratoria. Le decisioni del Presidente Kais Saied segnano una svolta notevole della storia recente del paese, che chiude il ciclo avviato nel 2011 aprendone uno nuovo che ha contorni ancora da definire.
Un’economia fragile, una profonda disparità tra aree costiere e interne, uno stillicidio costante della popolazione, soprattutto giovane, la minaccia del terrorismo, respinta a fatica e a caro prezzo, le proteste sempre maggiori in aree strategiche per l’energia come a Tataouine, una gestione della pandemia disastrosa con un tasso di morti tra i più elevati al mondo. L’ultimo decennio e gli ultimi anni in particolare sono stati travagliati per la Tunisia e l’inconcludenza della classe politica insediatasi dopo la Rivoluzione, che ha mostrato una voracità non minore ai predecessori, ha solo aggravato i problemi.
Per sbloccare la situazione il Presidente Kais Saied è ricorso all’articolo 80 della Costituzione, ha rimosso il Primo ministro Mechichi e ha fermato i lavori del Parlamento, dove il partito islamico Ennahda è maggioritario. La nuova premier Ne’jla Bouden, prima donna con tale carica in un paese arabo, ma non prima in un paese musulmano (nel 1988 Bhutto in Pakistan e da molti anni Sheikh Hasina in Bangladesh), ha giurato l’11 ottobre e ha parlato apertamente di lotta alla corruzione, secondo alcuni “strutturale” in Tunisia. Ad ogni modo, nessuno prima di lei lo aveva mai fatto e sicuramente non il predecessore, percepito come troppo legato agli interessi di parte.
Saied può contare su un ampio sostegno della popolazione. Lo dimostrano le recenti manifestazioni, tra cui quella di domenica 8 ottobre lungo Avenue Habib Bourguiba, partecipata da circa ottomila persone, riferisce Tunis Afrique Press, sebbene ce ne siano state anche di contrarie, non spontanee, come sembrerebbe, ma supportate dal partito islamico Ennahda e da quello islamista Al Karama. Nel frattempo, alcuni paesi hanno apertamente sostenuto la svolta: Emirati Arabi, Egitto e Arabia Saudita, come nota anche la risoluzione dell’UE, adottata in parte il 21 ottobre. La premier ha parlato anche con la sua controparte libica Abdelhamid Dbeibah mentre c’è stato un importante incontro tra Yael Lempert, Vicesegretario di Stato americano per gli affari del Vicino Oriente, e il Ministro degli Esteri Othman Jerandi, che ha sempre avuto ottimo rapporti con Washington, utili anche per ricevere dosi di vaccino.
Nei giorni scorsi 39 personalità tunisine, tra cui professori, giornalisti, registi e attivisti politici e per i diritti umani, hanno sottoscritto un appello inequivocabile in cui si legge che “le misure prese il 25 luglio dal presidente Kaïs Saïed costituiscono una risposta coerente alla richiesta popolare di porre fine a un esperimento che, con il pretesto della transizione democratica, ha portato il paese nella morsa degli islamisti e dei loro alleati”. I firmatari mostrano fiducia nel neonato governo di Ne’ja Bouden che rappresenta un positivo “inedito nella Tunisia indipendente” e ribadiscono che la Tunisia sta intraprendendo un percorso di “emancipazione democratica”. Non solo quindi la popolazione ma anche gli intellettuali sostengono l’operazione di “rettifica” del Presidente, testimoniando l’effervescenza insita nella società civile tunisina.
Fin dal 2011, il Presidente nutre un profondo discredito verso la classe politica e coltiva un particolare progetto che ha riproposto più volte, sia nel 2013, in occasione della stesura della Costituzione, sia nel 2019, per la campagna elettorale vinta da indipendente contro il candidato sostenuto nemmeno troppo velatamente dalla Francia. Sebbene non sia nitido, propone una piramide rovesciata, una democrazia dal basso verso l’alto. La sua “nuova fondazione” prevede dei consigli locali (264) eletti con suffragio universale diretto, dei consigli regionali, selezionati a partire dai rappresentanti di quelli locali, e una sola assemblea nazionale. Nei consigli è prevista una quota di donne, di laureati, un rappresentante per le persone con disabilità. A corroborare questa forma di democrazia diretta esiste il mandato imperativo e il diritto di revoca.
In tutto questo rimane l’incognita dei finanziamenti del Fondo Monetario Internazionale, necessari per risollevare il paese, che si sbloccheranno solo e soltanto dopo un dettagliato programma di riforme, che la premier sicuramente può produrre.
Si tratterebbe, in ogni caso, del terzo prestito dal 2013, condotto sottotraccia e senza che ci sia mai stato un dibattito pubblico sul tema. Come in tutti gli stati d’eccezione si sa dove inizia, quali norme o prassi vengono addormentate ma non si può prevedere dove si arriverà. Il progetto del Presidente è solo all’inizio, alla fase preparatoria: lo svuotamento dei partiti nati con la Rivoluzione, soprattutto quelli islamisti e radicali. Certo è che la torsione costituzionale o l’accentramento che dir si voglia di Saied gode, oltre all’indubbio consenso interno, dell’appoggio più o meno manifesto di altri attori regionali e sostanzialmente non è osteggiata dagli USA che sanno di non potersi permettere il collasso di un altro stato del Mediterraneo mediano tra Algeria e ciò che un tempo fu la Libia. Discorso diverso per la Francia con cui Saied non ha un rapporto particolarmente felice ma del resto per i Transalpini non sono tempi facili in Africa.
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