Lorenzo Utile - La situazione rischia di compromettere non solo il processo di pace in Sudan, ma molti altri anelli della catena, a partire dal coinvolgimento di Paesi confinanti (che comunque hanno i loro problemi da risolvere), fino ai più che evidenti interessi terzi, e fino all’ONU anche se questo può avere importanza relativa.
Il punto centrale è che per porre un freno alle violenze, che in una guerra dichiarata o meno purtroppo avvengono, i due generali a capo delle parti in conflitto abbiamo accettato di sedersi a un tavolo e tentare di trovare un accordo. Abdel Fattah Al-Buhran, capo del Consiglio di Transizione ufficialmente riconosciuto, e Mohamed Handane Dagalo, accettano una tregua, in vista dell’incontro di oggi, 6 maggio, a Jeddah, in Arabia Saudita, fra i reciproci portavoce e rappresentanti. Un passo importante per non fare tornare il Sudan a drammatiche situazioni di recente memoria. L’obiettivo è la fine delle ostilità e la ripresa del processo che ha come obiettivo il passaggio dei poteri da un organismo sostanzialmente militare, a un governo civile, quindi libere elezioni e avvio di una ripresa. Le leggi nazionali prevedono quindi una sola forza armata, ovvero l’esercito nazionale del generale Al-Buhran, ma la Rapid Support Force del generale Dagalo non accetta di essere ufficialmente sciolta e incorporata nelle forze armate nazionali, pretendendo anzi il contrario, cioè costituire il nucleo dell’esercito del Sudan, cosa non accettata dalle autorità riconosciute e causa del recente riaccendersi degli scontri e dei bombardamenti, nonché di fuga di centinaia di migliaia di persone verso i confini, specialmente con il vicino Chad.
Arabia Saudita e Stati Uniti in testa, seguiti da Lega Araba, Unione Africana, Inghilterra ed Emirati Arabi Uniti, hanno lavorato attivamente per realizzare il cessate-il-fuoco da parte delle due parti, e per portare i reciproci rappresentanti allo stesso tavolo, con il primo interesse di salvaguardare la popolazione. Le difficoltà non sono poche, obiettivamente, a partire dal fatto che il generale Dafallah Alhaj, portavoce del presidente riconosciuto Al-Buhran, abbia pubblicamente dichiarato che si siederà allo stesso tavolo solo se “i ribelli accettano la dichiarazione di scioglimento, e il processo di transizione”, condizione imprescindibile che equivale a una formale resa senza condizioni, e alla successiva fase di “riorganizzazione”.
Sia Al Burhan che Mohamed Hamdan “Hemeti” Dagalo hanno dato l’assenso per una nuova tregua, ma nei fatti i combattimenti si verificano continuamente da oltre 20 giorni in diverse aree della capitale Khartum, del Darfur, del Kurdufan, e lungo le vie di collegamento battute dalla popolazione in fuga, ma è positivo il fatto che anche le forze attive all’opposizione, di Libertà e Cambiamento (la FCC che ha dato fuoco alle polveri fino alla deposizione del dittatore l-Bashir)), abbiano accettato di fare tacere le armi e attendere. DI fatto, i colloqui di Jeddah sono il primo tentativo concreto di far sedere le forze del generale Fattah Al Burhan e di Mohamed Hamdan Dagalo.
La enorme posta in gioco, quindi, fa puntare i riflettori sull’incontro di Jeddah, e sul notevole lavoro fatto dall’Arabia Saudita per ottenere una tregua e l’incontro dal quale dipendono le sorti del secondo più esteso Paese dell’Africa.
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