Roberto Roggero - Ieri 23 luglio, gli Stati Uniti hanno annunciato che ad agosto in Svizzera si svolgeranno dei colloqui per cercare di mettere fine alla guerra che sta devastando il Sudan.
Il segretario di stato Antony Blinken ha affermato in un comunicato di aver invitato l’esercito sudanese e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (RSF) a partecipare a dei colloqui per un cessate il fuoco, che cominceranno il 14 agosto a Ginevra. Il generale Mohamed Hamdan Dagalo, leader della RSF, ha accolto l’invito di Blinken, si attende la risposta del generale Abdel Fattah Al Buhran, leader delle Forze Armate Sudanesi e riferimento politico riconosciuto a livello internazionale.
Ai negoziati, che si svolgeranno con la mediazione dell’Arabia Saudita, parteciperanno come osservatori i rappresentanti di Unione Africana, Egitto, Emirati Arabi e ONU.
“L’obiettivo è ottenere una tregua, permettere la distribuzione degli aiuti umanitari e mettere in atto un meccanismo di monitoraggio e verifica per garantire l’attuazione di qualunque accordo”, ha aggiunto Blinken. Secondo Blinken, in questa prima fase non saranno affrontate “questioni politiche più generali”.
Ci si deve quindi aspettare una tregua in Sudan? A quanto sembr dalle ultime notizie, perfino i paramilitari ribelli della Rapid Support Force si sono detti disponibili a negoziare, rimane da vedere pretese e concessioni.
Nel frattempo, la situazione della popolazione si deteriora giorno dopo giorno e si allargano anche le evoluzioni del conflitto dal punto di vista politico e diplomatico, come il nuovo orientamento di Mosca, fino a ieri sostenitrice delle milizie paramilitari e oggi più vicina al governo internazionalmente riconosciuto, con cui Putin sembra intenzionato a concludere accordi per la Difesa, in funzione della tanto agognata possibilità di avere finalmente le necessarie concessioni per la base di Port Sudan, sul Mar Rosso. La stampa occidentale ha poi tralasciato in modo manifesto una importantissima notizia di valore politico, cioè il riavvicinamento Sudan-Iran con il reciproco scambio dei nuovi ambasciatori, dopo otto anni di rapporti (ufficialmente) interrotti. Non è un caso, specialmente se si considera che Teheran è il principale partner di Mosca nella regione mediorientale.
Certo l’impegno americano non è fine a sé stesso o espressione di bontà disinteressata. E’ evidente che Washington punta a recuperare almeno una parte del prestigio perso in Medio Oriente e soprattutto nel Sahel, regione che si è orientata verso Russia e Cina, specie Burkina Faso, Niger e Mali. Se Washington riuscisse a fare sedere allo stesso tavolo i leader in lotta in Sudan, sarebbe una vittoria politica di primo piano, con le implicazioni che ne seguirebbero.
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