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Sudan - Colloqui a Jeddah, ma la guerra non si ferma

Roberto Roggero - Di nuovo seduti di fronte, nella città saudita di Jeddah, le due fazioni in conflitto in Sudan dal 15 aprile scorso, per tentare un accordo che possa dare respiro alla popolazione, grazie agli sforzi diplomatici di Arabia Saudita e Stati Uniti, e dopo una prima interruzione. Questa volta agli incontri, oltre ai portavoce del governo riconosciuto a livello internazionale presieduto da Abdel Fattah Al Burhan e ai paramilitari ribelli della Rapid Support Force di Mohamed Hamdan Dagalo, vi è anche una rappresentanza della IGAD, organizzazione intergovernativa per lo sviluppo del Corno d’Africa, capeggiata dal segretario Workneh Gebeyehu, ex ministro degli Esteri d’Etiopia. Nel frattempo, sul campo, in Darfur, in Kordofan, i combattimenti infuriano e le vittime civili aumentano. I combattimenti degli ultimi giorni e l’annuncio delle RSF di aver preso Nyala, capoluogo della provincia del Darfur meridionale, mettono in dubbio le reali intenzioni delle due fazioni belligeranti sul volere una pace stabile o la volontà di annientare l’avversario.

La RSF ha risvegliato le rivalità tribali e reclutato migliaia di combattenti nel Darfur centrale, in gran parte, com’è noto, eredi dei famigerati Janjaweed responsabili di genocidio, che hanno proclamato di avere ucciso oltre duemila soldati nemici, e distrutto parecchi mezzi, oltre ad avere preso possesso di tutto l’equipaggiamento bellico della base delle forze armate nella città. I morti civili non si contano più. Alcune informazioni parlano di circa 10mila, mentre ben più di cinque milioni di persone hanno abbandonato le proprie case per fuggire a bombardamenti e combattimenti. Oltre la metà della popolazione dipende dagli aiuti umanitari.

Più di un milione di sfollati ha cercato protezione nei Paesi limitrofi, dove però la situazione non è migliore, specialmente nei campi per rifugiati. Si stima che altri circa cinque milioni di sudanesi abbiano attraversato il confine con il Chad, c’è estrema penuria di cibo e acqua potabile, rischio di epidemie di malaria, tifo e colera, soprattutto per i più giovani e gli anziani.

Anche nella capitale etiope Addis Abeba, varie organizzazioni e partiti sudanesi si sono riuniti per far pressione sui militari, con un progetto politico alternativo credibile e un comitato preparatorio per fermare la guerra, che comprende una sessantina di persone, presieduto dall’ex primo ministro sudanese Abdallah Hamdok.

Secondo diverse fonti, i paramilitari ribelli della RSF controllano gran parte della capitale Khartoum e della città gemelle Omdurman e Bahri, e stanno insistendo per sfondare nel territorio controllato dall’esercito. I ribelli controllano poi il Darfur occidentale, Nyala, e parte del Kordofan settentrionale, che si trova lungo la principale rotta fra Khartoum e il Darfur, e dove vi è un intenso traffico clandestino di rifornimenti fra diramazioni in Libia, Chad e Repubblica Centrafricana.

Il governo riconosciuto controlla nove dei 18 stati del Paese, compreso l’importantissimo avamposto di Port Sudan sul Mar Rosso, principale scalo marittimo e unico aeroporto funzionante per i passeggeri che viaggiano all’estero, per altro dichiarata capitale alternativa e attualmente sede di diverse missioni diplomatiche straniere. Al Buhran inoltre controlla i ministeri di Finanze ed Esteri e Banca Centrale. A Khartoum, Bahri e Omdurman, le RSF controllano la maggior parte degli edifici governativi e altri luoghi strategici, tra questi la raffineria di petrolio al-Jaili, a circa 70 km dalla capitale, il palazzo presidenziale, l’aeroporto di Khartoum e l’edificio della radiotelevisione di Stato a Omdurman.

Ora, mentre fra le strade delle città sudanesi si continua a sparare, l’attenzione è però puntata sui colloqui di Jeddah, per la salvaguardia della popolazione e per fermare una guerra.

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