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Speciale Sudan - Mosca mediatore in un Paese diviso?

Roberto Roggero - Il Sudan è ormai un Paese spaccato, dove si combatte una guerra senza esclusione di colpi per il controllo delle risorse di cui il Paese è ricchissimo. Il tutto a scapito della popolazione, con 25 milioni di persone sull’orlo della tragedia.

Si muore di fame in Sudan, e nessuna delle parti in causa vuole cedere. Si continua a combattere, con il pericolo che il Paese finisca come la Libia, divisa fra due governi.

In tutto questo, da non trascurare il fattore Russia, che in Sudan ha notevoli interessi e per questo potrebbe rivestire il ruolo di mediatore fra le parti in lotta, facendo in modo che vengano divise equamente le risorse ma non il Paese. Non è certo facile, così come sarebbe complicato organizzare una missione ONU, che avrebbe bisogno di almeno 20mila uomini. Il risultato è che si spara ancora e la gente continua a morire e a non avere da mangiare.

Alcuni analisti hanno anche proposto una soluzione sul modello libico, in sostanza, la parte occidentale del Paese (Darfur compreso) alla Rapid Support Force del generale Dagalo, la parte orientale al generale Al Buhran e alle Sudan Army Forces. Certo non sembra essere una strada che possa portare a una pacificazione, perché c’è una differenza fondamentale rispetto alla Libia, dove esistono tre grand elementi: le milizie dell’ovest, intorno al governo di Tripoli, quelle dell’est intorno al generale Khalifa Haftar in Cirenaica, e il Fezzan nelle mani dei Tuareg e dei Tebu. In Sudan, invece, non esiste una prevalenza di una milizia in una particolare parte del Paese.

Quali sono le zone di influenza ora? La capitale del Sudan è attraversata dal Nilo, è divisa in tre grandi agglomerati: a sud Khartum, a nord-est Omdurman e poi East Nile. In tutti questi centri ci sono quartieri controllati da RSF e altri controllati da Al-Burhan. In Darfur le RSF hanno una posizione dominante, ma questo non vuol dire che controllino interamente il territorio: devono lottare contro il Movimento di liberazione del Darfur, contro le milizie orbitanti intorno a due grandi gruppi etnici, i Fur, che danno il nome alla regione, e gli Zaghawa, tribù di origini ciadiane.

Il resto del Paese comprende il Kordofan, e anche qui ci sono le SAF contro la RSF e i singoli movimenti locali, fazioni diverse che sostengono Dagalo o Al-Burhan. Una situazione complicata. In Darfur le RSF controllano i principali centri e le miniere più importanti, fuori dai quali la guerra imperversa. È tutto molto più frammentato che in Libia, e i due contendenti hanno un nemico comune, cioè la società civile, i cui movimenti popolari vogliono una riforma del Sudan in senso liberale e democratico.

Com’è noto, le RSF erano uno strumento di Al Bashir, il dittatore che voleva uccidere i ribelli del Darfur in cambio di miniere d’oro e siti di raffinazione. In questo contesto si potrebbe raggiungere un’intesa per la spartizione delle risorse, ma bisogna vedere chi fa da garante.

La Russia ha avuto un ruolo molto ambiguo in Sudan: ha sostenuto sia le RSF, che le servivano per il traffico d’oro e il controllo delle miniere, sia Al Burhan, che comprava armi russe e che era il tramite per costruire una base russa a Port Sudan. Due anni fa, infatti, i sudanesi stavano per firmare un’intesa con Mosca. Hanno desistito perché sono intervenuti gli americani che hanno bloccato tutto promettendo aiuti che poi non sono arrivati. Visto che gli USA non hanno mantenuto le promesse, però, Al Burhan è tornato a parlare con i russi.

I russi ci guadagnerebbero perché realizzerebbero il loro hub a Port Sudan, che potrebbe diventare un punto di appoggio per la Marina, anche se per ora a loro basta avere una presenza stabile nel Mar Rosso.

In tutto questo, in Sudan ci sono 7 milioni di sfollati interni e poco meno di un milione che sono usciti dal Paese. La guerra ha creato una situazione di caos ed emergenza, in cui le attività criminali, come quelle dei trafficanti di uomini, sono favorite. Può esserci un aumento connaturato delle migrazioni verso l’Europa, ma non degli sfollati, dei disperati del Darfur e del Kordofan, che non hanno abbastanza risorse. Migrano gli abitanti delle grandi città, da El Fasher a Khartum, dei centri che sono collegati un po’ meglio. Qualche segnale si vede già. E qui la componente dei rifugiati politici prevale su quella economica: per questo l’Europa non può mandarli via, ha firmato accordi per la protezione dei rifugiati.

C’è poi una situazione di gravissima insicurezza alimentare per circa 25 milioni di persone. Un dato che parla da solo. È difficile fare entrare gli aiuti nel Paese. O si scende a patti con RSF e forze armate affidando loro la distribuzione, con il pericolo che si tengano gli aiuti e li diano ai soldati, oppure bisogna impegnarsi a livello ONU per organizzare una missione e garantire corridoi umanitari.

Le Nazioni Unite possono muoversi con una risoluzione, ma poi l’intervento tocca agli attori locali, alle nazioni confinanti: ci vorrebbe una missione dell’Unione africana che metta insieme ciadiani, etiopi, ivoriani, ruandesi, che si dia degli obiettivi, a partire dalla messa in sicurezza di Khartum. Controllare un Paese immenso come questo con 20mila uomini è utopia. Il problema, però, è che anche per stabilizzare la capitale ci vorrebbe una missione di law enforcement, con una copertura aerea.

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