Lorenzo Utile - Fra il 2020 e il 2023, la regione africana del Sahel ha visto rivolgimenti decisivi, in una spirale che rischia sempre più di degenerare verso la completa catastrofe.
In Mali, Burkina Faso, Guinea, Ciad, Niger, Gabon, Sudan, gli alti ufficiali delle forze armate hanno attuato diversi colpi di stato, impadronendosi del potere e cacciando le autorità civili. Le popolazioni sono scese in piazza a festeggiare i nuovi leader in uniforme, spesso sventolando bandiere russe, o bruciando quelle francesi e di altri Paesi europei considerati neocolonialisti. L’arretramento dell’Occidente e della Francia dal Sahel, e la contemporanea comparsa di Russia e Cina, hanno preso in contropiede l’Unione Europea, fra cui l’Italia, abituati a ritenere il Sahel e l’Africa occidentale come una regione problematica, ma sostanzialmente amica.
Il continente africano è piombato in incubi ancora ben impressi nella memoria recente, ai tempi dei vari dittatori degli anni ’70-80 come Mobutu Sese Seko, Idi Amin, Jean Bedel Bokassa, Hissene Habré. Ci si chiede, però, perché anche le popolazioni locali, piuttosto che apprezzare e sostenere le proposte di cooperazione, hanno invece deciso per il sostegno ai nuovi leader e dei nuovi alleati russi e cinesi.
Da quando i militari sono al potere in sei Stati dell’Africa Occidentale, in Europa si vivono le conseguenze, soprattutto economiche, della situazione: i 27 Stati membri fra cui l’Italia, si chiedono cosa abbiano sbagliato nel rapporto con il Sahel, e come si possa recuperare il terreno perso con forme alternative di collaborazione più concrete e pragmatiche. Un’analisi approfondita rivela che la risposta non è così difficile come potrebbe apparire.
Il sostegno popolare, nel caso di molti Paesi africani, è spesso semplicemente comprato con concessioni e apparenti riforme economiche dalle stesse giunte militari, piccoli regali che ben poco sollevano le popolazioni da una endemica condizione di povertà,
La disperazione delle popolazioni, sono sfociate in un sostegno passivo verso le giunte militari che hanno promesso pace, stabilità e progresso, senza però aver conseguito finora risultati da poter vantare. La scelta filorussa dei generali trova poi solide basi nella speranza che grazie agli aiuti del Cremlino (pagate profumatamente con risorse naturali) il terrorismo e le organizzazioni criminali che seminano morte e distruzione nei villaggi vengano definitivamente sconfitti.
Russia, Europa e Occidente sono ispirati da differenti regole, in quello che appare sempre più come un grande Risiko africano: Mosca offre armamenti e riscuote in risorse minerarie e terre rare, mentre. L’Europa offre addestramento, ma non risorse concrete per contrastare le formazioni jihadiste.
Nessuno ha la ricetta magica per il Sahel, soprattutto se si pretendono miracoli in tempi brevi, né da Mosca tanto meno dall’Occidente, ma le popolazioni africane non sono ingenue, e la corrente sembra sul punto di cambiare nuovamente, questa volta in senso contrario ai governi militari. In questi giorni, in Guinea, Mali e Burkina Faso, si stanno verificando manifestazioni popolari sempre più massicce, per gli scarsi risultati dei governi militari, e per la mancanza di libertà. In Niger aumentano i contrasti all’ interno dello stesso governo di transizione. In Chad, il generale Mahamat Deby ha concesso elezioni che non sono state il massimo della democrazia, ma un importante segnale di apertura e ritorno graduale agli assetti costituzionali. In Senegal, alla fine del marzo scorso, Bassirou Diomaye Faye, fino a pochi giorni prima in carcere, è stato eletto presidente a seguito di regolari elezioni, con il 55% dei voti, e senza alcun ricorso alla violenza, ma con la forza della democrazia popolare. Non è un successo da poco.
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