Bayt al Hikma, la Casa della Sapienza
Fu tra l’8° e il 9° secolo che i califfi abbasidi di Baghdad vollero dare vita alla Bayt al Hikma, Casa della Sapienza. Le arti matematiche, astronomia, ingegneria, meccanica, erano discipline profondamente praticate, come lo erano filosofia, poesia, letteratura e le arti umanistiche in genere, ma furono proprio la scienza e le traduzioni arabe del Medioevo, a essere utilizzate dagli umanisti del Rinascimento, per scoprire un passato che rischiava l’oblio. E fu grazie a Ismail Ibn al-Razzaz al Jazari che l’occidente scoprì alcuni fra i fondamentali principi dell’ingegneria meccanica. Un’opera coltivata dall’ingegnere e inventore, che visse anche nella città turca di Diyarbakir fra la fine del 12° e l’inizio del 13° secolo, all’epoca delle crociate di Salahaddin (1138-1193).
Le notizie biografiche sono poche, si sa che Al Jazari proveniva da una famiglia di artigiani, e che per 25 anni fu al servizio della dinastia locale degli Artuchidi. Fu appassionato inventore e studioso poliedrico fin dalla tenera età, e oggi noto come “il Leonardo dell’Islam”, interessato alle discipline cinesi e indiane che, secondo le testimonianze, pare abbiano dato origine ad almeno un centinaio di meccanismi di vario genere, compresi quelli descritti nel monumentale Compendio.
Originalità, calcolo e immaginazione
Alcune invenzioni avevano funzioni esclusivamente pratiche, come il sistema di rifornimento e sfruttamento dell’acqua, tramite ingranaggi a energia idraulica, utilizzato nelle moschee e negli ospedali di Diyarbakir e Damasco, e in uso fino a epoche recenti.
Altre realizzazioni avevano finalità ludiche, di spettacolo, sperimentali, come l’orologio di quasi due metri di altezza, con figure e automi fra cui un elefante con cavaliere, draghi, scrivani e uccelli rapaci, che segnavano ore e minuti. Il primo orologio dove gli automi reagivano in modi diversi ai differenti intervalli di tempo, e per altro definito estremamente preciso. O il “lavabo-fontana del pavone”, dove tirando la coda del volatile, l’acqua usciva dal becco e comparivano le figure di due servi, uno offriva ceneri vegetali da utilizzare come sapone, l’altro, dopo il risciacquo, porgeva un asciugamano.
Certamente spettacolare doveva essere la versione dettagliata, e approfondita da una sorprendente meccanica di precisione, del cosiddetto “gioco alcolico”, una macchina che rappresentava un edificio di quattro piani, dove nel primo si trovava un piccolo automa-donna, con una bottiglia e un bicchiere; nel secondo piano, altre donne con strumenti musicali e un ballerino; nel terzo una serie di porte chiuse e, in cima, un cavaliere con una lancia. I giocatori si posizionavano intorno alla macchina, che produceva suoni, e le figure si azionavano. Quando la musica s’interrompeva, il cavaliere puntava la lancia verso uno dei partecipanti, e la donna versava il vino nel bicchiere della persona che doveva bere fino all’ultima goccia. Solo quando il ciclo era terminato, le porte si aprivano e usciva un piccolo automa con il messaggio “Il vino è finito”.
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