Assadakah Cairo - Una delle principali grane di cui dovrà occuparsi Retno Marsudi, ex ministro degli esteri indonesiano e ora Inviata speciale Onu per l’Acqua, sarà probabilmente il contenzioso per l’acqua del Nilo che da anni vede Egitto e Sudan contro l’Etiopia. Difatti, sulla nomina di Marsudi, firmata ieri dal Segretario generale Guterres, l’Egitto ha espresso subito la propria soddisfazione.
Pochi giorni fa, il presidente egiziano Abdel-Fattah El-Sisi, in un discorso pubblico aveva chiesto la piena messa in opera dei principi della carta delle Nazioni Unite, riformando il sistema finanziario globale, combattendo la povertà e garantendo a tutti la sicurezza alimentare. “Serve la cooperazione internazionale - ha spiegato Al Sisi - per garantire l'accesso universale all'acqua e per sostenere il diritto alla gestione dei fiumi transfrontalieri con il consenso di tutti i paesi interessati". Riferimento esplicito allo scontro diplomatico per l’acqua del Nilo iniziato ormai 13 anni fa contro l’Etiopia, subito dopo che Addis Abeba aveva annunciato il progetto della Gerd, Grand Ethiopian Renaissance Dam, una gigantesca diga lungo il Nilo Azzurro, l’affluente che nasce appunto in Etiopia e alimenta per l’84% il flusso delle acque del Nilo.
La Diga della Rinascita, costata 5 miliardi di dollari e ormai completata, serve ad Addis Abeba per produrre elettricità. Oggetto della contesa non è la diga in sé, bensì la velocità con cui l’Etiopia vuole riempire i 74 miliardi di metri cubi del bacino idrico.
Addis Abeba ha deciso di farlo in quattro anni, ma in questo modo, secondo Egitto e Sudan, sta trattenendo una parte fondamentale degli 80 miliardi di metri cubi di acqua che servono ogni anno ai due paesi a valle, per i quali il Nilo rappresenta da millenni l’unica fonte di approvvigionamento. Il tempo giusto per riempire il bacino, sostengono invece gli esperti del Cairo e di Khartoum, non può essere inferiore a 11 anni. Nonostante non vi sia accordo, le operazioni di riempimento proseguono. A fine agosto l’Etiopia dichiarava di aver raddoppiato la produzione di energia elettrica nazionale, grazie agli impianti della Gerd che ora generano 1550 megawatt, un terzo della potenza che la diga potrà produrre a pieno regime.
Nel 2015 in realtà, le trattative avevano portato Egitto, Sudan ed Etiopia a sottoscrivere una dichiarazione di principi che confermava gli accordi firmati del 1925 e del 1959, secondo cui ogni intervento che modifica la portata idrica del Nilo deve essere concordato tra i paesi interessati. Addis Abeba, tuttavia, nei mesi successivi ha cambiato idea, disconoscendo il valore di quelle intese perché raggiunte durante il periodo coloniale, dunque quando il popolo etiope era privato della propria sovranità.
Un concetto ribadito nella lettera recapitata pochi giorni fa al Consiglio di sicurezza dell’Onu, in risposta alla terza denuncia presentata dall’Egitto il 2 agosto scorso, puntando l’indice contro “le politiche unilaterali etiopi che violano le regole e i principi del diritto internazionale e costituiscono una flagrante violazione dell'accordo del 2015, nonché della dichiarazione presidenziale del Consiglio di Sicurezza emessa il 15 settembre 2021”. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu, infatti, aveva già manifestato forti perplessità contro l’atteggiamento dell’Etiopia dopo la prima denuncia egiziana, formalizzata nel 2020. Ma a dispetto delle pressioni internazionali per ricondurre tutti a più miti consigli, Addis Abeba resta rigida sulla sua posizione, accusando "l'approccio aggressivo" degli egiziani e respingendone gli argomenti, che bolla come una “litania di accuse infondate”. Uno scenario che si fa dunque sempre più minaccioso per la stabilità dei rapporti politici della regione.
Il presidente Al Sisi da anni ripete che il suo paese è pronto a difendere “con ogni mezzo” l’acqua del Nilo e di recente ha mosso alcuni passi che potrebbero rappresentare una preoccupante escalation.
L'Etiopia "umilierà" qualsiasi nazione che tenti di minacciare la sua sovranità, ha avvertito il primo ministro del paese Abiy Ahmed. Tuttavia, ad agosto, l’esercito egiziano ha inviato in Somalia, proprio al confine con l’Etiopia, un contingente di 10mila uomini, dotati di mezzi corazzati e alcuni caccia dell’aeronautica. Decisione scattata dopo un accordo per la cooperazione in materia di sicurezza raggiunto poche settimane prima tra Il Cairo e Mogadiscio. Accordo che serve alla Somalia per convincere Addis Abeba a fare marcia indietro sul Somaliland, la regione separatista della Somalia settentrionale che si è autoproclamata indipendente. L’Etiopia ha infatti provocato durissime reazioni somale firmando quest’anno un patto preliminare con i ribelli del Somaliland, impegnandosi a riconoscere il nuovo Stato in cambio di alcuni terreni costieri su cui intende realizzare una base navale, garantendosi così il suo primo sbocco sul mare, direttamente nel golfo di Aden.
All’Egitto, invece, l’accordo serve per far capire ad Addis Abeba che è in grado di portare in Corno d’Africa la sua forza militare (considerata 15ma al mondo) e che non scherza quando minaccia di usare “ogni mezzo” per difendere l’acqua del Nilo. Minaccia resa ancora più esplicita dagli accordi di cooperazione per la sicurezza che il Cairo ha sottoscritto con tutti gli altri paesi confinanti con l’Etiopia: Djibuti, Kenia, Eritrea, Sud Sudan e Sudan.
Oggi il Ministro degli Esteri egiziano, Badr Abdel Aty, è stato ad Asmara, accompagnato dal capo dell’intelligence, Abbas Kamel, per portare un messaggio al presidente dell’Eritrea Isaias Afwerki. Secondo la nota ufficiale, le parti hanno concordato una visione comune per garantire sicurezza e stabilità nel Corno d’Africa, in particolare preservando l’unità territoriale della Somalia e favorendo i colloqui per raggiungere pace e stabilità in Sudan.
Il Sudan, infatti, costituisce un altro gravissimo focolaio di tensione regionale per via dello scontro per il potere divampato tra il presidente Abdel-Fatah Al Burhan, capo dell’esercito sudanese, e il generale Hamdan Dagalo, anche detto Hemeti, capo delle milizie delle Rapid Support Forces.
La guerra è iniziata un anno fa, proprio quando il paese sembrava a un passo dalla riconciliazione definitiva, dopo il rifiuto di Hemeti a far confluire le proprie milizie nell’esercito regolare. Il risultato, ad oggi, sono 150mila morti, molti dei quali non-arabi del Darfur, già massacrati durante il tentativo di pulizia etnica di venti anni fa ad opera dei Janjaweed, oggi confluiti nella milizia RSF, e si stimano anche più di 10 milioni di sfollati, 8 dei quali rifugiati in Egitto, Libia, Sud Sudan, Ciad e Repubblica Centrafricana.
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