Assadakah News - Dare voce a ogni testimonianza è uno dei doveri della cronaca oggettiva, ed è il caso che sta emergendo con le conseguenze della fuga di Bashar Al-Assad, avvenuta una settimana fa, in conseguenza della sommossa popolare e della conquista di Damasco da parte di Hayat Tharir Al-Sham, formazione guida degli insorti. Quella parte di siriani, appartenenti alla popolazione alawita, forzatamente sottomessa a un regime sanguinario, costretti per sopravvivenza. Una parte di popolazione che oggi si sente tradita e abbandonata, dopo il non avere avuto altra scelta. In questa fascia non mancano quelli che effettivamente hanno condotto una vita più che dignitosa, alcuni con posizioni di responsabilità e potere, in casi di fedeltà al regime, altri componevano la bassa forza.
Nell’ultimo mezzo secolo, la comunità alawita, variante dell’islam sciita, è stata considerata il collegamento politico e militare del clan Al-Assad dal 1970, con Hafez Assad, padre di Bashar, che pareva l’occasione di riscatto di questa minoranza, poco più di due milioni di persone fra 23 milioni di sunniti.
In effetti, sono stati impiegati in massa nelle forze di sicurezza e nella feroce milizia Shabbiha, incaricata del lavoro sporco, mentre un’altra parte è stata reclutata negli uffici statali. Solo una ristretta élite, alleata con i grandi imprenditori sunniti, si è aggiudicata effettivi privilegi. Il centro nevralgico di questa élite è al-Mazzeh, sobborgo della capitale dove il 90% è alawita, fino alle esclusive residenze di Vilas, fra l’autostrada e la vecchia Damasco. Tutto il resto è povertà estrema. Molti sono stati costretti all’arruolamento nell’esercito, in quei reparti che non hanno esitato a spogliarsi dell’uniforme e deporre le armi, unendosi alla popolazione in festa. Molti ex militari erano costretti a mantenere la famiglia con venti dollari al mese di pensione, a fronte di un costo della vita sproporzionato, che necessita di almeno 20 dollari al mese solo per mangiare. Quasi tutti gli alawiti di Damasco si sono rifugiati nella enclave di Tartus e Latakia, intorno alle basi russe, per cercare protezione. Alla fine non si sono registrate le promesse vendette, come minacciava la propaganda del regime, e molti vogliono tornare, ma la benzina è troppo cara.
Non è facile decifrare le intenzioni del rinnovato governo. Al momento, Al-Jolani e il neo-premier, Mohammad Al-Bashir, hanno fatto un’intensa campagna di rassicurazione a tutti i livelli, e promesso che in Siria ci saranno le elezioni.
Con Mosca, in particolare, si discute il futuro della base aerea Hmeimim e del porto di Tartus, entrambi sotto il controllo russo. Postazione che il Cremlino, non ha intenzione di perdere. Al-Jolani ha anche dichiarato di non volere alcun conflitto con Israele, ma di volere portare il proprio Paese a un governo in cui siano rappresentati tutti i siriani.
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