Assadakah – C’è una parte di mondo dimenticata, fra diverse altre, dalla comunità internazionale, e dove la ultra-quarantennale missione ONU non ha mai raggiunto lo scopo per la quale è stata istituita, ovvero un referendum (dall’esito scontato) che darebbe al Sahara Occidentale l’indipendenza. Una proposta che l’ONU ha messo sul tavolo nel 1966.
In questa fascia di terra, dove è stato eretto un muro divisorio secondo solo alla grande muraglia cinese, esistono tratti fra i più minati al mondo, con pattuglie armate con tanto di colpo in canna.
Il fuoco cova sotto la cenere, con provocazioni e azzardi da entrambe le parti, in un botta-e-risposta che dura da decenni, con un inasprimento nell’ultimo anno. Come esiste una questione palestinese, infatti, esiste anche una questione Saharawi.
In particolare, il territorio è quello Mahbes, la 6a Regione Militare dell’Esercito di Liberazione Popolare Saharawi (ELPS, Fronte Polisario). Un pezzo di deserto dimenticato, dove convergono i confini di quattro Paesi dell’Africa settentrionale. A nord l’Algeria e il deserto di Hammada, dove circa mezzo secolo si trovano i villaggi di rifugiati saharawi. A est la Mauritania e, sul lato opposto, il Marocco.
La lunga muraglia fortificata, fatta costruire dal re Hassan II negli anni Ottanta, si snoda per oltre 2.700 chilometri, e taglia in due come quello che dovrebbe essere il quarto Paese, il Sahara Occidentale.
Un anno fa il Fronte Polisario dichiarava decaduta la tregua con il Marocco, dopo 29 anni, ma il conflitto prosegue, mentre nei campi dei rifugiati, si diffondono pandemia e penuria di cibo e si sopravvive esclusivamente grazie all’azione di organizzazioni umanitarie internazionali, fra le quali l’italiana (genovese) “Music for Peace”.
Fosfati e industria della pesca, ecco ciò che sta alla base della questione ancora irrisolta.
La sproporzione di forze è evidente e il conflitto, seppure di bassa intensità, rischia di destabilizzare l’intero quadrante. A preoccupare è la profonda crisi diplomatica tra Algeria e Marocco. Negli scorsi mesi Algeri ha dapprima annunciato la rottura delle relazioni con Rabaht, poi ha interdetto lo spazio aereo ai voli di compagnie aeree marocchine e francesi. Sullo sfondo, ancora una volta, la crisi del Sahara e centinaia di famiglie divise da un muro, con le giovani generazioni che mostrano di non voler lasciare perdere una questione considerata di vita o di morte. A peggiorare la situazione, oltre mille casi di Covid e un centinaio di vittime della pandemia, ma oltre al bilancio sanitario, a gravare su una popolazione che vive di aiuti umanitari, è stato il blocco delle frontiere, che ha reso impossibile l’approvvigionamento di cibo. Un bambino su tre è malnutrito cronico.
Stando ai numeri del Programma Alimentare Mondiale, l’insicurezza alimentare fra i saharawi è passata dal 77% del periodo precedente la pandemia, al 92% di oggi. I vaccini giungono in quantità molto limitate, per l’evidente squilibrio della priorità nella disponibilità di Paesi come Stati Uniti e altri in Europa. Il tutto nel silenzio irreale della comunità internazionale e nella ben calcolata impotenza dell’ONU.
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