Roberto Roggero - Non è facile sintetizzare in poche parole ciò di cui hanno discusso la premier Giorgia Meloni e l’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar, che rappresenta di fatto la parte illegale della Libia, rispetto al governo ufficialmente riconosciuto anche dall’ONU, che per altro è stata argomento messo sul tavolo. Due ore di colloquio, nel quale la Meloni ha assicurato il supporto italiano al processo verso le elezioni presidenziali e parlamentari entro l’anno in corso, seguite all’incontro che Haftar aveva avuto in precedenza con il ministro degli Esteri Antonio Tajani.
E’ stato naturalmente discusso anche il problema dei flussi migratori, dei rapporti incrociati fra Italia, Libia e Paesi confinanti dell’area afro-mediterranea, senza dimenticare il Sudan, e la stabilizzazione della Libia, con tutta la sua importanza, nel quadro internazionale.
La domanda comunque è un’altra: perché la premier italiana ha incontrato Haftar proprio ora e soprattutto pubblicamente, “costringendolo” a venire a Roma, quando lo stesso generale ha cortesemente rifiutato di incontrare recentemente la stessa Meloni a Tobruk, dicendosi fortemente indisposto e con urgentissimi impegni…
Ne risulta, a prescindere dalle ideologie, una figura decisa della premier Meloni, che ha saputo utilizzare le giuste leve nel giusto momento: la questione migranti, per la quale è necessaria una copertura completa delle coste libiche, e in particolare in Cirenaica, dove in buona parte sono fuori controllo dell’autorità locale, ovvero il generale Khalifa Belqasim Haftar, autoproclamato comandante dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) ed ex ufficiale dell’entourage di Gheddafi.
Dal punto di vista del lavoro dell’intelligence, che agisce alla base per poter organizzare determinati incontri, particolarmente delicati, un meccanismo che funziona a dovere, anche perché è difficile immaginare che il presidente del Governo di Accordo Nazionale ufficialmente riconosciuto, Fayez al-Sarraj, non sia stato informato in tempo reale sull’incontro Meloni-Haftar, e abbia dato il proprio assenso. La catena si allunga se si pensa alle relazioni con il vicino Egitto del presidente Al-Sisi, con cui Haftar ha rapporti di non cattivo vicinato.
Il meccanismo è delicato, la posta in gioco è più che notevole, fino al Palazzo di Vetro di New York, che può essere determinante fino a un certo punto, ma soprattutto al fatto che entro il 2023 il processo di pace prevede le elezioni.
Il generale Haftar sa bene che ufficialmente non avrebbe il sostegno della comunità internazionale, visto che il governo riconosciuto è quello di Al-Sarraj, quindi no consa ha da offrire in cambio? Quali sono i suoi rapporti con il Sudan dal piano dei flussi migratori? Ha la prospettiva di doversi ritirare, e quindi, per accettare, che cosa hanno offerto la comunità internazionale e l’ONU a loro volta? Potrebbe, il generale Haftar, fare come già il presidente turco Erdogan ha fatto recentemente, ovvero minacciare di usare l’arma dei flussi migratori a scopo politico?
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