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Per una giustizia che cura le ferite

(P.Guido Bertagna su Il Riformista, 17/12/2021) - “Non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale”: l’intuizione e la ricerca di Gustav Radbruch guidano la riflessione del IX Congresso di Nessuno tocchi Caino.

La frase di Radbruch – mi pare – prima ancora di essere una preziosa indicazione per gli esperti e i tecnici della materia giuridica, è una provocazione: ci invita a guardare le cose da altra angolazione, a modificare prospettive e punti panoramici. Allo stesso modo, la giustizia riparativa, l’itinerario che chiede e propone, prima di essere una mera alternativa alla giustizia retributiva, è un invito a cambiare il modo di guardare la complessità delle cose.

Molto cammino è stato fatto anche dagli anni del lavoro di Howard Zehr: la giustizia riparativa continua a farsi strada attraverso riflessioni, studi ed esperienze diverse nel mondo e grazie alla disponibilità e alla profondità di tante persone che hanno accolto la proposta e intrapreso il percorso – certamente difficile ma anche, in tante situazioni, molto liberante – potendolo, a loro volta, comunicare.

Io, per primo, sono grato a tante persone che hanno attraversato la violenza degli anni Settanta, gli anni del terrorismo, e con il loro impegno appassionato, spesso anche doloroso, mi hanno aiutato a capire profondità e potenzialità di queste vie di giustizia. Quindi: “changing lenses”, cambiare lenti, il punto di vista: così si intitola l’opera di Zehr (pubblicata nel 1990: Changing Lenses: A New Focus for Crime and Justice e ripubblicata, aggiornata, nel 2015) che ha contribuito così tanto a diffondere la conoscenza della giustizia riparativa nel mondo. “La lente che usiamo per esaminare il crimine e la giustizia – scrive Zehr – influisce su ciò che valutiamo come rilevante, su cosa consideriamo essere relativamente importante e anche su ciò che consideriamo come risultato proprio da raggiungere […] e determina anche come inquadriamo il problema e la sua ‘soluzione’. Abbiamo bisogno di guardare non solo a pene alternative o alternative alla punizione: abbiamo bisogno di altri, alternativi, modi di vedere entrambi, il problema e la soluzione”. Questa visione diversa, alternativa, del “problema” così come delle “soluzioni” coinvolge, nel pensiero di Zehr (appassionato fotografo, sensibile verso inquadrature e immagini), anche l’immaginario personale e collettivo. Come ci immaginiamo, allora, la giustizia? L’icona tradizionale e ricorrente resta tutt’oggi quella della dea bendata, con la bilancia in una mano e la spada nell’altra. Ma, nota Zehr, “la dea bendata con la bilancia in mano simboleggia bene la natura della giustizia impersonale, orientata al processo, propria del paradigma contemporaneo. Che alternativa abbiamo? – si chiede Zehr, provocatoriamente, e risponde – una possibilità è immaginare la giustizia che cura le ferite”.

Una “giustizia-che-cura-le-ferite” procede diversamente rispetto alla giustizia retributiva anche, come accennato, nelle prospettive, nel modo di guardare i “problemi” e le “soluzioni”. Per questo, sinteticamente, Zehr ricorda il diverso modo di procedere, i diversi passaggi, le diverse prospettive. Vale a dire, le lenti con cui guardiamo le ferite, le ingiustizie e le possibili risposte: “Secondo la giustizia retributiva, (1) il crimine viola lo Stato e le sue leggi; (2) la giustizia si focalizza sullo stabilire la colpa (3) e, in questo modo, può stabilire anche il dosaggio di pena che deve essere comminata; (4) la giustizia si cerca attraverso un conflitto tra avversari (5) nel quale il reo si pone contro lo Stato; (6) regole e intenzioni compensano i risultati: una parte vince e l’altra perde. Secondo la giustizia riparativa – prosegue Zehr –, (1) il crimine viola persone e relazioni; (2) la giustizia è tesa a identificare bisogni e compiti (obligation) (3) in modo che le cose possano ritrovare il loro giusto posto; (4) la giustizia incoraggia il dialogo e il reciproco accordo, (5) offrendo alle vittime e ai colpevoli un ruolo centrale, (6) ed è valutata nella misura in cui le responsabilità sono assunte, i bisogni trovano accoglienza, e la cura (degli individui e delle relazioni) è sostenuta”.

Nella sua lucida riflessione, nell’appassionata ricerca di una diversa “messa a fuoco” sulla realtà dolorosa del crimine e del male, Zehr apre sulla prospettiva non solo di nuove lenti ma di un più ampio, diverso, paradigma di giustizia. Un paradigma che è più di una visione e di una proposta e combina insieme una nuova grammatica, una teoria ben articolata con possibili modalità di applicazione e anche un certo grado di consenso. “Non credo ci siamo ancora”, commenta. Ma, per il momento, “questa visione può aiutare a dare una direzione a quello che potrebbe diventare un viaggio condiviso di esperienze e di esplorazioni”. Se la sete di giustizia è parte intima e profonda della nostra identità umana, tutto quello che ci fa avvicinare a una giustizia che guarisce le ferite e riapre le possibilità di una vita più piena e libera diventa il fondamento solido per proseguire nel cammino.

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