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Immagine del redattoreLetizia Leonardi

Per l'ex Ambasciatore Scapini la guerra è uno strumento della politica

Aggiornamento: 13 lug


Lelio Antonio Deganutti (Assadakah News) -

Bruno Scapini, ex diplomatico, da qualche hanno ha dimostrato di essere un valido romanziere. Le sue opere si occupano di questioni ‘’particolari’’ : dalla conquista dello spazio alla peculiarità del continente dell’Antartide fino alle cruciali guerre in Armenia ed in Palestina. Nel frattempo non ha abbandonato la passione politica dedicandosi alla stesura di pregiati pezzi geopolitici, la partecipazione ad interventi pubblici ed infine la vera e propria attività politica.

S. E. Bruno Scapini, già Ambasciatore, con una esperienza di quarant'anni nella Carriera diplomatica. Come si è evoluta (o involuta) l’arte della diplomazia da quando iniziò la Sua professione fino ai giorni nostri?

Molti studiosi di politica internazionale, e di diritto internazionale, hanno voluto teorizzare intorno al ruolo della diplomazia definendola come un’arte per l’appunto, come Lei dice, o anche come strumento della politica quale antefatto della guerra.  Carl von Clausewitz, alto Ufficiale prussiano, affermava che “la guerra altro non è se non la continuazione della politica con altri mezzi”, e addirittura concludeva asserendo che proprio la “guerra” è uno strumento della politica, non solo un atto politico.  Ma questo concetto possiamo ritenerlo ugualmente valido per la diplomazia. Anch’essa, infatti, è espressione della politica, pur non identificandosi propriamente con essa, e al pari della guerra dispone anch’essa  di  strumenti suoi tipici.

Uno di questi, il principale, è il negoziato. Quella forma di trattativa intesa ad affrontare una crisi attraverso il dialogo pacifico tra le parti. Orbene, oggi non possiamo non constatare come la diplomazia abbia subito un drastico ridimensionamento del suo tradizionale ruolo  che il diritto internazionale ha da sempre ad essa assegnato nel mantenimento delle relazioni tra gli Stati. Trattasi invero di una fase critica che la diplomazia sta oggi attraversando e che possiamo ricondurre a due ragioni essenziali: la prima è fisiologica, la seconda è patologica. Vediamo meglio. La prima ragione si collega allo sviluppo del mezzi di comunicazione e di trasporto che hanno reso estremamente facile nel mondo moderno per gli esponenti politici incontrarsi, discutere personalmente delle questioni e trovare addirittura la soluzione. Una circostanza, questa, che ha vanificato in gran parte il ruolo degli organi diplomatici che, sebbene preziosi per l’opera di quotidiana informazione e per il mantenimento nel tempo dei rapporti di amicizia tra i Paesi, vengono tuttavia oggi scavalcati dalle decisioni che i politici adottano direttamente nelle varie sedi di incontro. La seconda ragione è ben più grave. Essa si riconduce allo stato della Comunità internazionale in un dato momento storico. La Comunità internazionale è infatti l’insieme dei soggetti (gli Stati) che agiscono e interagiscono secondo i principi e le norme del diritto internazionale. Quest’ultimo, data la conformazione paritaria dei soggetti (in assenza di una autorità centrale superiore) dipende per la sua autorevolezza dalla obbedienza spontanea degli Stati. Ne deriva che tanto più critico e disordinato è lo stato della Comunità, tanto meno autorevole e critico sarà il suo diritto che la riflette e con esso, naturalmente la diplomazia quale suo tipico strumento. Ecco perché oggi possiamo parlare di crisi della diplomazia. Di fronte alla grave destabilizzazione del corso politico che il mondo sta vivendo, le regole valgono sempre meno e sempre più critico diventa il ruolo della diplomazia che – come vediamo – viene addirittura scavalcata nelle trattative internazionali dagli organi della magistratura (come nel caso Regeni con l’Egitto), o addirittura dai servizi segreti come sta accadendo per la questione palestinese.   

Secondo Lei non c'è il rischio che l’unipolarismo americano, giustamente tanto criticato, sia sostituito da un altro unipolarismo: quello cinese?

Perché solo nel caso della Cina? Il rischio sussisterebbe anche per le altre grandi potenze, come per la Russia, credo. Ma in ogni caso è poco probabile che il futuro dei rapporti internazionali ci riservi un’altra esperienza simile a quella degli Stati Uniti. Anche se la Storia si sviluppa secondo alcune linee di uniformità, occorre precisare che ogni fatto  storico è strettamente legato alle contingenze da cui prende vita. E sotto questo profilo, sono indotto a credere che nessuna delle attuali grandi potenze presenta quelle caratteristiche che hanno fatto degli Stati Uniti, per una fase determinata della Storia, la unica superpotenza. Ma c’è anche da osservare che sarà la stessa Comunità internazionale, ben consapevole oggi dei danni causati dell’imperialismo americano, ad evitare che se ne affermi un altro. E confermerebbe questa prospettiva, l’insieme dei principi di base che oggi la maggior parte dei Paesi riconosce come inalienabili ovvero, la parità non formale, ma sostanziale tra gli Stati, il rispetto reciproco della sovranità e della integrità territoriale e la cooperazione come metodo per il raggiungimento di benefici comuni da condividere equamente. Proprio il gruppo dei Paesi BRICS costituirebbe oggi, sebbene allo stato ancora embrionale, quella nuova Comunità internazionale che dovrebbe emergere, in un futuro non molto lontano, da questi nuovi valori che si stanno progressivamente affermando. Del resto, i Paesi BRICS oggi sono 10, ma ben altri 40 avrebbero già manifestato la loro intenzione di aderire al gruppo. E sarà questo indubbiamente uno sviluppo epocale per la nuova configurazione in cui si articolerà la Comunità internazionale.

Ci sono due nazioni che le sono particolarmente a cuore: l' Armenia e la Palestina. Pacificate queste regioni si favorirà un processo di pace globale?

Sperare è sempre lecito, direi; per contro, fare un’analisi credibile di quelle che potranno essere le probabilità di una pace globale conseguente alla soluzione delle due crisi, quella dell’Armenia nel Caucaso meridionale e l’altra palestinese per il Medio Oriente, mi sembra un esercizio alquanto arduo. E Le spiego subito il perché. Mai come oggi il mondo è fortemente destabilizzato. Nella Comunità internazionale esiste una profonda polarizzazione che vede confrontarsi il gruppo dei Paesi occidentali, a guida americana, e la Federazione Russa con i suoi nuovi alleati del Sud del Mondo. In questo contesto abbiamo 270 crisi distribuite in diverse aree del Pianeta di cui circa 70 sono conflitti attivi. Le aree dove queste crisi insistono sono quelle contese, vuoi per ragioni strategiche dal punto di vista geopolitico, vuoi per via delle risorse minerarie che contengono. E’ molto prevedibile, quindi, che anche con una soluzione della crisi palestinese – benché di massimo rilievo per la stabilità del Medio Oriente – e con la pacificazione del Caucaso Meridionale, altre crisi potranno verosimilmente aggravarsi portando altri angoli del Pianeta a nuove tensioni internazionali. Del resto oggi vediamo come gli Stati Uniti guardino con sempre maggior insistenza allo scacchiere indo-pacifico, al Mar cinese meridionale e al Mar Glaciale Artico. Ma non sono da meno le crisi di Taiwan, nello Yemen e quelle dell’Africa sub-sahariana. Tutte aree dove la tensione tra le superpotenze interessate potrebbe improvvisamente salire al punto di un diretto scontro. Purtroppo, mi consenta di essere alquanto pessimista sull’argomento. Siamo ancora lontani dalla prospettiva di una pace globale.  

Dal 2018 è anche romanziere. Ho iniziato a leggere il suo ultimo libro ''Somnium - Urla dall' Universo" .  Ce ne vuole parlare?

Ho scoperto, ammetto, questa mia vena narrativa solo da pochi anni. Dopo aver lasciato la Carriera diplomatica, per raggiunti limiti di età, per caso, rispolverando un mio breve pensiero che avevo messo per iscritto mentre ero in servizio in Armenia, mi è venuta l’ispirazione. E partendo da quel pensiero ho iniziato a scrivere la mia opera prima: Operazione Akhtamar. Si tratta di un romanzo con il quale ho voluto affrontare il tema del   Genocidio armeno del 1915, una tragedia epocale per quel popolo la cui verità storica ancor oggi stenta a farsi riconoscere. Ma il romanzo, la cui trama è di fantasia, e il contesto dei riferimenti veri e reali, mi è servito da esempio per tutti gli altri romanzi scritti successivamente con i quali ho inteso denunciare per ognuno di essi una specifica problematica. Per esempio, con Somnium, l’opera da Lei citata, l’intenzione è stata quella di denunciare il gravissimo rischio che incombe sull’Umanità intera da una militarizzazione dello Spazio cosmico.  Lo Spazio, è già la nuova frontiera dell’Umanità e si spera vivamente che possa essere utilizzato per fini esclusivamente pacifici, di esplorazione e di eventuale sfruttamento. Purtroppo, però, le forti tensioni esistenti tra le grandi potenze, inducono le stesse a guardare allo Spazio anche come luogo per una nuova militarizzazione. I rischi connessi ad un tale sviluppo sarebbero altissimi, in quanto le possibilità di utilizzare a fini militari il cosmo sono molteplici, diversificate e, soprattutto, molto più letali per impatto. Ecco perché dobbiamo essere consapevoli di questi rischi onde evitare il peggio un domani. E spero vivamente che questo mio romanzo possa offrire alla causa della pace un solido e convincente contributo.


Che appello vuole fare all’Occidente che ha perso la sua “weltanschauung” civilizzatrice per inseguire una tecnica sempre più matematizzata e quindi astratta?

Con questa domanda, credo che Lei intenda riferirsi all’avvento della Intelligenza Artificiale e ai suoi effetti che potrebbero ripercuotersi negativamente sullo stato della nostra attuale civiltà. Ebbene, il rischio per l’Occidente c’è, ed è anche concreto. Ma non solo per l’Occidente, in quanto promotore di questa fase di sviluppo scientifico e tecnologico, ma anche per tutti quei Paesi che vorranno fare eccessivo affidamento sulle tecnologie dell’artificiale a scapito di quella cultura umanistica che è stata la vera fonte del grande progresso realizzato dall’Umanità. L’uso della A.I. è indubbiamente accattivante, sia sul piano della curiosità scientifica, ma anche, e soprattutto, su quello economico e industriale. L’applicazione dell’A.I. facilita enormemente le attività produttive spingendo la  realizzazione dei progetti in tutti i campi ai più alti indici di perfezionamento e di resa. Ma la sostituzione dell’uomo con queste “macchine” ad intelligenza artificiale, oltre alle gravi conseguenze che potrà produrre sul piano sociale, in termini di disoccupazione, causerà un processo di graduale perdita della sua dimensione naturale. E ciò in quanto l’assoggettamento ad una transizione tecnologico-digitale ne scardinerà gradualmente l’essenza umana originaria e, dunque, anche la sua stessa dignità come persona umana.   Mi consenta a questo punto di elaborare ulteriormente sul tema solo per maggior chiarezza. La tecnologia è una caratteristica propria dell’uomo che da tempi immemorabili ha sempre cercato di ricorrere a scoperte ed invenzioni per migliore la propria condizione naturale e, come tale, limitata. Ma oggi, sotto la spinta dell’iperliberismo economico teso alla speculazione quale suo obiettivo primario – e il rapporto delle multinazionali con la globalizzazione ce lo dimostrerebbe – il ricorso sfrenato e senza limiti etici sull’uso delle tecnologie dell’artificiale, spinge l’uomo sempre più in basso nello sviluppo delle proprie capacità intellettuali, matematizzando tutta la realtà che lo circonda a danno di quella “visione” classica e umanistica che invece è stata la causa prima del suo successo nel mondo e nella Storia.

Per questo, mi sono convinto – ed è in fondo il contenuto del mio messaggio all’Occidente - che se da un lato occorrerà sempre appoggiarsi alla scienza e alla tecnica per migliorare le qualità e le condizioni esistenziali dell’uomo, dall’altro, non dovremo mai acconsentire a subordinare l’uomo alle macchine, pena altrimenti la perdita dei suoi valori e della sua originaria identità naturale.



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