Assadakah Roma News - Il 1 febbraio Amnesty International ha pubblicato il suo corposo rapporto sulla questione palestinese: 278 pagine frutto di un’attenta analisi legale e quattro anni di ricerca sul campo. La conclusione è irrevocabile: lo stato di Israele ha fondato un “crudele sistema di dominazione” che tratta il popolo palestinese “come un gruppo razziale inferiore”; le “massicce requisizioni di terre e proprietà, le uccisioni illegali, i trasferimenti forzati, le drastiche limitazioni al movimento e il diniego di nazionalità e cittadinanza ai danni dei palestinesi” fanno parte di un sistema che, secondo il diritto internazionale, costituisce crimine di apartheid. L’organizzazione ha trasmesso il rapporto all’ufficio del procuratore della Corte penale internazionale, che ha già aperto un’indagine.
Amnesty si aggiunge così ad altre organizzazioni che ritengono Israele colpevole del crimine di apartheid.
Nel gennaio del 2021 l’organizzazione israeliana B’Tselem denunciava che il proprio paese aveva ormai consolidato un “regime di supremazia ebraica” equivalente al sistema dell’apartheid sudafricano. Nell’aprile del 2021 l’organizzazione statunitense Human Rights Watch (HRW) pubblicava un rapporto che non lasciava spazio a dubbi. Tra il Mediterraneo e il fiume Giordano – quindi nei territori che comprendono Cisgiordania, Striscia di Gaza e Israele – vivono 6,8 milioni di israeliani ebrei e 6,8 milioni di palestinesi: le popolazioni sono equivalenti, ma “la soglia è stata varcata” (A threshold is crossed): i palestinesi, nel loro insieme, vivono sotto un regime di apartheid.
Se l’espressione descrive storicamente il sistema applicato dal Sudafrica tra il 1948 e il 1994, il termine ha oggi una valenza legale definita dalla Convenzione sull’apartheid e dallo statuto di Roma della Corte penale internazionale, che stabilisce che il crimine di apartheid è un crimine contro l’umanità.
La reazione del governo israeliano al rapporto è stata di una violenza inedita. Il ministro degli esteri non è entrato nel merito dell’accusa, ma ha attaccato l’organizzazione umanitaria. In un video di quattro minuti, Yair Lapid ha infangato Amnesty International, accusandola di “farsi eco di organizzazioni terroristiche” e di concentrarsi su Israele “mentre non dice che la Siria o l’Iran praticano l’apartheid”. In verità, Amnesty denuncia continuamente le violazioni dei diritti umani, dalla Siria all’Iran, dalla Cina al Venezuela, indistintamente. Ma definisce i crimini con parole precise e non ci sarebbero elementi per accusare Siria e Iran di applicare l’apartheid. Reato di cui invece, nel maggio del 2020, Amnesty accusava la Birmania per la sua campagna contro i rohingya.
In chiusura, Lapid accusa Amnesty di antisemitismo. Il giornalista britannico Chris McGreal, ex corrispondente da Gerusalemme e dal Sudafrica, ricorda in un articolo del Guardian che “i principali politici israeliani hanno avvertito per anni che il loro paese stava scivolando nell’apartheid. Tra loro anche due ex primi ministri, Ehud Barak ed Ehud Olmert, che difficilmente possono essere liquidati come antisemiti o nemici di Israele”.
Di fatto, nel rapporto di Amnesty nemmeno una parola può essere ricondotta a un pensiero antisemita o considerata una messa in discussione dell’esistenza legittima di Israele.
Il portavoce di Amnesty International in Italia, Riccardo Noury, non è sorpreso dell’accusa: “Sono anni che i nostri colleghi in Israele sono attaccati in questo modo da Tel Aviv e che Israele criminalizza il lavoro delle ong. Quello che ci fa effetto, invece, è il silenzio degli attori internazionali che dovrebbero difendere i diritti umani”.
In effetti, a dieci giorni dalla pubblicazione del rapporto, il silenzio delle grandi democrazie europee fa impressione.
In Francia il giornalista di Le Monde Benjamin Barthes spiega di avere cercato reazioni ufficiali, ma di aver trovato solo parole vuote.
In Italia, commenta ancora Noury, “il ministero degli esteri ha ricevuto il rapporto ma non ha ancora reagito al suo contenuto in modo ufficiale. Nella stampa italiana, articoli come quello di Chris McGreal pubblicato dal Guardian sono per ora inesistenti”.
In Germania la reazione è senza appello: il portavoce del ministero degli esteri Christopher Burger ha affermato che Berlino “rifiuta termini come apartheid e un focus unilaterale su Israele”, senza rispondere alle accuse formulate da Amnesty.
Negli Stati Uniti, invece, la narrazione sta cambiando. Da una parte la lobby ebrea di estrema destra, l’American Israel public affairs committee, accusa Amnesty di mettere Israele in pericolo e molti attivisti si chiedono su Twitter perché il New York Times non abbia ancora pubblicato un articolo sulla polemica, anche se la gravità dell’accusa a uno dei principali alleati degli Stati Uniti e l’importanza dell’organizzazione che la formula meriterebbero una copertura mediatica.
Il rapporto è stato però discusso in altre sedi. La segretaria generale di Amnesty, Agnès Callamard, è stata intervistata dalla Cnn e difendendo il rapporto ha aggiunto: “Sono rimasta scioccata, venendo per la prima volta in Israele e nei Territori occupati, di vedere quanto sia estesa la segregazione, quanto le persone possano essere separate e vivere situazioni di profonda disuguaglianza”.
L’elettorato ebreo negli Stati Uniti sta cominciando a cambiare posizione riguardo al sostegno incondizionato all’attuale governo israeliano, spiega una ricerca del Jewish electorate institute: la maggior parte degli elettori ebrei vuole limitare gli aiuti in modo che non possano essere spesi per espandere gli insediamenti in Cisgiordania. Per l’87 per cento degli elettori ebrei è anche compatibile essere “pro Israele” ed essere critici nei confronti delle politiche dell’attuale governo israeliano.
Il termine apartheid per descrivere il sistema politico attuale in Israele è usato e denunciato da oltre vent’anni dai palestinesi.
La stampa araba e palestinese, come Al Quds, riporta la notizia in prima pagina e ricorda, come fa l’avvocato per i diritti umani Mustafa Ibrahim su Daraj, che l’accusa di apartheid rievoca la famosa risoluzione delle Nazioni Unite del 1975, che affermava che “il sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale”. La risoluzione fu annullata nel 1991 sotto pressione degli Stati Uniti in un contesto di post guerra fredda.
I palestinesi sottolineano anche che il rapporto ha il pregio di considerarli come un unico popolo, vittima nel suo insieme delle politiche israeliane, senza fare distinzioni tra chi vive a Gaza, a Gerusalemme Est, in Cisgiordania, in Israele o nella diaspora. Questo approccio rende ancora più grave, spiega Ibrahim, la mancanza di unità della politica palestinese attuale.
La nuova generazione di attivisti palestinesi non crede più nel linguaggio del diritto internazionale, usato dai loro padri per decenni senza alcun risultato. La ricercatrice Lana Tatour, palestinese d’Israele, spiega che il recente riconoscimento dell’apartheid è importante. Tuttavia, nel concreto, “la strada per disfare l’apartheid in Palestina non passa attraverso il perseguimento dell’uguaglianza di tipo liberale. I palestinesi hanno tentato questa strada per decenni senza alcun risultato. Il percorso per annullare l’apartheid passa attraverso lo smantellamento del colonialismo e il perseguimento della decolonizzazione”.
Il conflitto israelo-palestinese è il più longevo del ventunesimo secolo. Da cent’anni è anche uno specchio dei rapporti di forza internazionali. In assenza di una soluzione politica o diplomatica, dopo il fiasco degli accordi di Oslo, gli unici attori a occuparsi della questione sono le organizzazioni per i diritti umani. Il loro peso è molto ridotto a livello politico.
Tuttavia, come insegna il caso del Sudafrica, sono state l’opinione pubblica e la società civile ad aver spinto la comunità internazionale, dopo quarant’anni, a fare pressione sui governi per smantellare il sistema dell’apartheid. La campagna delle organizzazioni per i diritti umani potrebbe avere lo stesso impatto nel lungo termine, e riuscire definitivamente a “demolire l’apartheid” e non più “le case dei palestinesi”, come chiede l’ultima campagna di Amnesty. (fonte: Catherine Cornet)
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