Lorenzo Utile - Avrebbero dovuto essere impiegati diversamente, invece sono oltre trent’anni che gli aiuti occidentali per la questione palestinese finiscono per essere amministrati per fomentare il regime dell’Apartheid praticato da Israele, e per mantenere il controllo sulla popolazione palestinese.
Gli Accordi di Oslo del 1993 potevano essere una buona occasione, con un impiego di oltre 50 miliardi di dollari in aiuti per i Territori Palestinesi sotto occupazione, invece questo fiume di denaro, stanziati secondo un preordinato modello di sviluppo, non sono stati sfruttati come era previsto.
L'Occidente ha commesso, una volta ancora, errori di valutazione dei quali ne farà le spese il popolo palestinese, perché questo elaborato modello do sviluppo non ha tenuto abbastanza in considerazione la politica espansionista e coloniale dello Stato ebraico. O meglio, non ha voluto tenere conto della devastazione, delle estremamente rigide strutture di controllo, delle differenze di come il processo di pace grava sulla schiena degli israeliani, diversamente da quella dei palestinesi, che avevano accolto con fiducia le prospettive messe sul tavolo dai colloqui di Oslo.
Gli aiuti occidentali si sono quindi rivelati la chiave della logica coloniale, usati come strumento per riformare i palestinesi e sostenerli attraverso un periodo transitorio di dominio israeliano, per raggiungere un punto in cui potessero sostenersi autonomamente in pace accanto a Israele nella tanto pubblicizzata (e ideale) “Soluzione a Due Stati”.
Una libertà lontana
Sebbene i finanziamenti siano stati utilizzati per creare un’Autorità Palestinese (PA) e limitate istituzioni palestinesi di autogoverno, come nel campo della sanità e dell’istruzione, né gli aiuti di Oslo né il processo di Oslo hanno avvicinato i palestinesi alla libertà e all’autodeterminazione. Non hanno mai permesso loro di costruire un’economia che li sostenesse nella lotta contro la potenza occupante che li sta colonizzando e rimuovendo dalla maggior parte della loro terra rimanente (circa il 22% della Palestina storica). Quei finanziamenti sono stati utilizzati quasi immediatamente per compensare le perdite economiche imposte ai palestinesi dalle politiche punitive israeliane, come la chiusura, la costruzione di insediamenti e le restrizioni al commercio. Gli aiuti sono diventati un’ancora di salvezza per gli OPT quando il processo di pace è precipitato nella violenza estrema durante la Seconda Intifada, dal 2000 al 2006.
I responsabili politici occidentali hanno quindi aggiornato il loro modello di sviluppo, concentrandosi sul settore della sicurezza palestinese. La loro opinione era che se l’Autorità palestinese fosse stata in grado di coordinarsi con Israele e di garantirgli la sicurezza, mettendo fine alla “violenza” delle fazioni armate palestinesi, allora si sarebbero potuti avviare nuovi sforzi di pace. Ancora una volta, l’onere della riforma e della pace è stato posto in primo piano sui palestinesi, ancora una volta sulla base di un presupposto coloniale razzista che li vede più inclini alla violenza, a differenza del liberal-democratico Israele.
Molti sviluppisti animati da buone intenzioni hanno investito tempo e risorse per far funzionare il modello di sviluppo aggiornato di Oslo, che ha avuto “così tanto successo” che persino la Banca Mondiale ha ritenuto che nel 2011 i palestinesi fossero pronti a gestire un proprio Stato.
Tuttavia, nel 2023, i palestinesi sono ancora più lontani dall’autogoverno rispetto a 12 anni prima. Ci sono diverse prospettive sul perché i modelli di aiuto alla pace di Oslo siano falliti così abissalmente dopo 30 anni e 50 miliardi di dollari di finanziamenti.
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