Lorenzo Utile - Secondo la maggioranza degli analisti consultati, il conflitto fra Hamas e Israele non si concluderà rapidamente, ma le operazioni militari in risposta all’attacco del 7 ottobre, dovranno avere termine. Ci si domanda quindi che cosa accadrà a quel punto, e quali saranno le conseguenze.
L’operazione militare condotta da Israele a Gaza, detta “Piombo Fuso”, è ormai offuscata da pressioni politiche, massiccia propaganda, complesse manovre diplomatiche, ed è difficile capire cosa realmente stia accadendo, e cercare di prevedere le conseguenze di questo conflitto, sul Medio Oriente e sul resto del mondo. Intanto può essere utile individuare gli obiettivi dei contendenti e degli altri maggiori attori coinvolti nella crisi, per capire quali potrebbero essere raggiunti, e quali conseguenze queste aspettative, soddisfatte o meno, avranno in futuro. Insomma, la classica domanda regina: cui prodest?
L’obiettivo che ha Israele, ovvero annientare Hamas, non è da considerare molto realistico, ma potrebbe essere possibile indebolire il movimento e forse mettere fine alla sua egemonia sulla Striscia. Sono comunque obiettivi ambiziosi, e difficili da raggiungere, almeno senza un’occupazione militare (che Israele sembra voler evitare) e soprattutto senza considerare i danni collaterali: vittime civili e distruzioni.
La prevedibile durata nel tempo delle operazioni, e il numero delle vittime e delle distruzioni, sono un fardello umanitario e politico che mobilita la protesta, in particolare nel mondo arabo e islamico, e rischia di influenzare seriamente gli equilibri futuri in Medio Oriente e nel Nord Africa. In tutto questo non è chiaro quali piani a più lungo termine abbia Israele nei confronti dei palestinesi e del loro territorio, né se vi sia nel paese un consenso politico sufficiente per accettare ed applicare un effettivo piano di pace (come ad esempio la soluzione dei due Stati).
Da parte di Hamas, l’obiettivo è speculare: eliminare Israele, altrettanto impossibile da realizzare, per cui obiettivo intermedio sembra essere quello di allargare al massimo il conflitto, coinvolgendo altri Paesi arabi. Obiettivo alternativo minore, consolidare il consenso internazionale nella causa palestinese, e sostenere questa base politica in Medio Oriente, fra una corrente fondamentalista anti-israeliana e anti-occidentale, e una moderata, oltre le differenze dottrinali fra sunniti e sciiti.
Il mondo si sta schierando e sta cominciando a muovere altre pedine. Oltre ai Paesi occidentali che oggi appoggiano Israele, e fortemente contrari a un allargamento del conflitto, altri stanno prendendo posizione, con loro obiettivi strategici.
La Russia di Putin ne approfitta per distogliere l’opinione pubblica dall’Ucraina, e sembra appoggiare Hamas, oltre ad accrescere la collaborazione con l’Iran, pur lasciandosi aperta l’opzione di una qualche forma di mediazione.
In Iran, il conflitto sembra aver rafforzato il partito di coloro che sono contrari ad ogni ripresa del dialogo con gli Stati Uniti. In tal modo, l’Iran spera di consolidare un fronte islamico a lui favorevole che lo faccia uscire dalla posizione minoritaria.
Riserva qualche sorpresa la Turchia, inizialmente esitante, ora schierata contro Israele, forse nel tentativo di rafforzare le sue posizioni in Siria, probabilmente per accreditare Erdogan come nuovo leader del movimento dei Fratelli Musulmani, nonché terreno che ha dato origine proprio a Hamas. Questi Paesi peraltro non sono normalmente alleati tra loro: i loro interessi sono frequentemente divergenti, ma in questa fase sembrano aver trovato ragioni sufficienti per stabilire una sorta di coalizione anti israeliana. Non una vera alleanza, ma il convergere tattico di diverse strategie che poi potrebbero tornare a scontrarsi tra loro. La Turchia pur avendo stabilito linee di comunicazione con la Russia, ed avendo appoggiato la riconquista del Nagorno Karabakh da parte dell’Azerbaijan contro l’Armenia, resta pur sempre membro della NATO e in contrasto con Russia e Iran in Siria. Lo stesso Iran, nei conflitti in Caucaso, era solidale con Armenia e Georgia, in funzione antiturca ed antirussa, anche se è divenuto un importante fornitore di armi per Mosca, contro l’Ucraina e riceve un parziale appoggio russo in campo nucleare.
L’interesse comune sembra essere soprattutto di carattere negativo: ognuno di questi paesi ha proprie ambizioni in Medio Oriente che potrebbero avere maggiori speranze di successo se si indebolisse l’influenza americana ed occidentale nella regione, e vedono in Israele la perfetta occasione per raggiungere tale risultato.
La debolezza dimostrata da gran parte dei governi arabi cosiddetti “moderati” (che più si erano esposti nel processo di normalizzazione dei loro rapporti con Israele) di fronte alle proteste della loro opinione pubblica, è certamente un incentivo ad appoggiare le tesi favorevoli ad Hamas.
E’ difficile immaginare come una simile coalizione possa assicurare uno stabile equilibrio della Regione. L’appoggio concesso a movimenti terroristici e fondamentalisti, che non hanno alcun interesse ad una qualsiasi pacificazione, pesa in modo importante sulla loro credibilità. D’altro canto una simile scelta non potrà avere successo senza una cocente sconfitta e forse anche la eliminazione fisica di Israele: un obiettivo che sembra troppo ambizioso, del tutto squilibrato rispetto alle risorse che questi paesi possono voler mobilitare ed impegnare.
Il risultato di tutto questo però sembra essere un aumento della volatilità politica dell’intera Regione, che finirebbe ancora una volta per obbligare gli americani e l’Occidente ad impegnare importanti risorse in un processo di difficilissima stabilizzazione. Chi ci guadagnerà? Forse la Cina?
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