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Medio Oriente - Le conseguenze del terrorismo americano

Lorenzo Utile - Con il pretesto della “guerra al terrore”, che invece è palesemente alimentato, e con la “missione” di esportare la democrazia, nel mondo arabo si conta un incredibile tasso di vittime civili, in tutti i Paesi dove la cosiddetta “libertà americana” ha voluto forzatamente insinuarsi in un territorio che non gli competeva. La vergogna dell’Afghanistan, dell’Iraq, e poi Siria, Yemen, Somalia, Libia, ha mostrato il vero volto del tanto celebrato quanto deleterio stile “made in USA”, come ha chiaramente dimostrato un recente studio della Brown University del Rhode Island, intitolato “The Cost of War Project”, con dati reali e verificati sulle vittime della guerra, che sono ormai diversi milioni, e altri effetti collegati come la distruzione di intere economie, infrastrutture, servizi pubblici, per cui il bilancio aumenta, se si considerano i purtroppo sottovalutati effetti a lungo termine, di oltre 3,5 milioni. Stabilire un numero esatto è naturalmente impossibile, ma il dato certo è che si tratta di cifre a sei zeri, poiché fra gli “effetti collaterali”, va considerata anche la cifra causata da fenomeni quali la nascita di Daesh con il Califfato Islamico, la guerra civile in Siria, la Primavera Araba, e altro ancora.

Un bilancio il cui risultato si è rivelato nell’insicurezza e instabilità, non solo in Medio Oriente, ma anche nell’intera regione dell’Asia occidentale, in cui deve essere compresa anche la irrisolta questione del Kurdistan.

Nel gennaio 2018, il leader della rivoluzione islamica in Iran, l’ayatollah Sayyid Ali Khamenei, ha dichiarato: “Quello che è importante è che la presenza corruttrice degli Stati Uniti in questa regione deve finire…Gli Stati Uniti hanno portato guerra, discordia, sedizione e distruzione ovunque nel mondo, e tutto questo non può continuare”. La guerra americana al terrore, però, continua a colpire milioni di persone in tutto il pianeta, con un impatto devastante specialmente su donne e bambini, che sopportano il peso maggiore di queste continue conseguenze che sfociano in crisi umanitarie e causano molte più vittime dei morti in combattimento.

Dall’11 settembre 2001, gli Stati Uniti hanno combattuto o comunque sono stati coinvolti in numerosi conflitti, con il pretesto di una presunta lotta al terrorismo, che dimostra chiaramente come le conseguenze della continua violenza della guerra siano di portata estremamente vasta, con aspetti così complessi da non poter essere valutati con la necessaria esattezza, a partire dal sorgere di numerosi gruppi terroristi, che non erano presenti in Asia occidentale o in Paesi come la Somalia prima dell’intervento americano. La cosiddetta “guerra al terrore” ha avuto l’effetto opposto, rispetto all’obiettivo dichiarato, perché il terrorismo non è stato sconfitto, anzi, è proliferato.

Gli esempi non mancano di certo: in Afghanistan, dopo vent’anni di guerra, il Paese oggi vive un nuovo arretramento perché Washington, vista l’impossibilità di raggiungere i propri obiettivi, ha preferito chiamarsi fuori, come già nel Vietnam, lasciando che il regime talebano riprendesse le redini e precipitasse il Paese in un nuovo drammatico medioevo.

Nel caso della Somalia, l’intervento americano e la conseguente guerra hanno impedito la consegna di aiuti umanitari, con l’insorgere di fame, carestie ed epidemie. Un disastro che avrebbe potuto essere mitigato se gli Stati Uniti avessero scelto di spendere l’enorme quantità di denaro in programmi di aiuti umanitari.

Nello Yemen la situazione non è molto diversa. Il Paese, che si trova in una posizione geografica di estremo valore strategico, già fra i più poveri della penisola arabica, è stato fino a oggi teatro di una guerra di interessi che ha coinvolto Arabia Saudita e Iran, oltre a Stati Uniti ed Europa, e che oggi sta volgendo al termine non certo grazie alla politica americana, ma alla volontà di riavvicinamento dimostrata da Riyadh e Tehran, che hanno deciso di ripartire dal riavvicinamento diplomatico per risolvere la drammatica crisi yemenita e fronteggiare una ricostruzione del Paese, la cui popolazione è allo stremo, e grazie in particolare alla instancabile opera di mediazione del Sultanato dell’Oman.

Lo stesso discorso vale per il Sudan, le cui risorse costituiscono un obiettivo anche per Cina e Russia, e che solo grazie alla volontà degli stessi Paesi arabi può avere una possibilità di riappacificazione.

Anche per la Libia il discorso non cambia, come per tutte le altre situazioni di emergenza che sono il risultato di una politica totalmente sbagliata da parte americana. E’ ormai chiaro che non può essere una guerra la risoluzione dei problemi, ma solo ed esclusivamente la volontà di cooperazione, l’unica che può portare un reale vantaggio per il futuro, soprattutto per le popolazioni colpite.

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