Assadakah News - Quando il giornalismo abdica al proprio dovere le conseguenze possono essere letali. Nel senso letterale del termine. Specie durante i conflitti. «Nel nostro caso, ha contribuito all’uccisione di decine e decine di ostaggi». Meron Rapoport è abituato a dire frasi scomode. Lo fa, però, con tono gentile. Stavolta oltretutto in perfetto italiano, lingua imparata dal padre, partigiano della Brigata ebraica, e perfezionata tanto da tradurre i testi di Pier Paolo Pasolini. «Nei primi nove mesi, i media mainstream di Israele, soprattutto la tv, hanno ripetuto che solo la pressione militare avrebbe spinto Hamas a liberare i rapiti. In questo modo, hanno screditato i negoziati agli occhi del pubblico, collaborando al loro fallimento. Gli effetti li vediamo: il conflitto va avanti da un anno e tanti ostaggi sono morti. Un accordo avrebbe potuto salvarli», dice Rapoport, famoso reporter di inchiesta, nella redazione “Local call” a Tel Aviv.Il sito indipendente in ebraico è nato dieci anni fa dall’esperienza di 972, giornale scritto, in inglese, da israeliani e palestinesi. A lungo prodotto di nicchia, il dramma 7 ottobre e il suo racconto mediatico appiattito sul “partito della guerra” hanno trasformato “Local call” e “972” in un punto di riferimento cruciale in patria e all’estero. «Abbiamo cercato – aggiunge – di adempiere al nostro dovere».
Quando accade, il giornalismo può salvare vite. Nel senso, di nuovo, letterale del termine. «Se Israele avesse consentito l’accesso dei reporter internazionali nella Striscia, la guerra sarebbe già finita. E non sarebbe stata così devastante», afferma Safwat al-Kahlout su cui, come sugli altri colleghi gazawi, è caduto il peso di documentare in solitudine l’offensiva di Tel Aviv nell’enclave. Fixer per 24 anni, cronista e cineoperatore, fino a marzo – quando è riuscito ad arrivare in Italia –, Safwat ha vissuto e raccontato allo stesso tempo i bombardamenti costanti, la distruzione della propria casa, la morte di amici e parenti, la carenza di cibo, acqua, elettricità, l’esodo plurimo nell’illusione di un luogo sicuro. «Alla mia famiglia e a me è toccato quattro volte: da Gaza al centro, poi al sud, poi di nuovo al centro. Cercavo di sfamare i miei sette figli e di tenerli al sicuro e, allo stesso tempo, narrare quanto accadeva. C’eravamo solo noi. Sempre di meno, oltretutto: 176 colleghi sono stati uccisi, qualcosa di inedito e sconvolgente. Era nostro dovere». Per il loro impegno, Meron Ropoport e Safwat al-Kahlout hanno ricevuto a Roma “La colomba d’oro per la pace” con Veronica Fernandes di “RaiNews 24” e Matteo Pucciarelli di “La Repubblica”. Giunto alla 40esima edizione, il premio, ideato da Archivio Disarmo con il sostegno delle Cooperative aderenti a Legacoop, ha, inoltre, assegnato il proprio riconoscimento internazionale alla Campagna “Stop killer robot” a cui è stato dedicato un convegno alla Sapienza con Rete pace e disarmo. «La sfida più grande dal 7 ottobre per i giornalisti è stata quella di raccontare il contesto. Il che non significa giustificare la strage compiuta da Hamas bensì capire ciò che accade e a prendere le contromisure. Per avere una reale sicurezza. Gaza era il luogo della separazione estrema. Ed è diventato la principale minaccia. I due fatti sono collegati? E se sì, come? Questo è il contesto. Quale lezione si può trarre per non ripetere sempre gli stessi errori?», afferma Rapoport.«Nella Striscia, per riuscire a raccontare, ci siamo dovuti inventare un “giornalismo di emergenza”, fatto di schede telefoniche virtuali inviateci dagli amici all’estero per i cellulari, di schede Internet israeliane acquistate al mercato nero, satellitari comprati insieme per sostenere i costi. Mi chiedo ancora come abbiamo fatto e come i colleghi continuano a fare – gli fa eco al-Kahlout – Abbiamo vissuto molte guerre a Gaza. Ma nessuna come quella attuale». «I conflitti hanno sempre creato dibatti – conclude Ropoport –. Il 7 ottobre è accaduto qualcosa di inedito. Tutti i partiti, dall’estrema destra ai laburisti, sono convinti che la forza militare è l’unico modo con Israele può agire in Medio Oriente. La società, però, non è monolitica. C’è una parte, e secondo me è la maggioranza, che ritiene – pur non sostenendo la questione palestinese - questa via sbagliata. Il problema è che non ha voce pubblica. Ai giornalisti spetta la responsabilità di dargliela".
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