Mari Antonietta Marino - Negli ultimi anni si assiste in occidente alla riscoperta da parte di un pubblico sempre più ampio dei grandi regni dell’Africa subsahariana. Studi accademici e mostre nei musei, ultima una grande mostra americana (Caravans of Gold, Fragments in Time) dispiegata in tre musei e durata quasi due anni, mostrano come l’Africa abbia vissuto periodi di grande splendore. La mitica figura di Mansa Musa s’incontra ormai negli ambiti più disparati, dai libri per bambini alle canzoni rap più ribelli. In Africa invece le storie dell’impero del Mali sono sempre state vive, e lo sono tuttora, nella tradizione orale portata avanti dai griot, cantori che da tempi immemori tramandano le storie dei popoli dell’Africa occidentale.
Mansa Kankan Musa I (1280-1337), personaggio storico e leggendario allo stesso tempo, fu il più celebre re del Mali quando questo, nel XIV sec. era il più grande regno dell’Africa subsahariana. Da alcuni viene considerato l’uomo più facoltoso di tutti i tempi poiché in effetti aveva accesso alle miniere d’oro più ricche dell’epoca. Le carovane che in epoca medievale attraversavano il Sahara commerciavano principalmente in oro e sale, due preziosi materiali che sono stati alla base degli scambi transahariani per secoli. L’Africa, e in particolare la fascia subsahariana (l’antico Sudan o sahel) occidentale, è stata per un lungo periodo la fonte primaria dell’oro del mondo arabo e non solo. I duemila denari d’oro che nell’XI sec. Alfonso VI di Castiglia donava annualmente all’abbazia di Cluny erano con ogni probabilità realizzati con oro africano.
L’impero del Mali, che all’epoca si allungava per 2000 km dall’alto corso del Niger fino alle sponde dell’Atlantico, basò la sua prosperità proprio sull’esportazione del prezioso minerale. Le sue riserve e miniere d’oro, prima Bambouk (oggi in Senegal) e poi Bure (in Guinea), erano tenute segrete e alimentavano leggende di ricchezze inimmaginabili.
Tale era la fama di Mansa Musa che nel XIV secolo il cartografo spagnolo Abraham Cresques nel suo Atlante Catalano (oggi alla Bibliothèque Nationale de France, Parigi) raffigura Mansa Musa con in mano un globo d’oro, probabilmente un’enorme pepita. Nel 1324 Mansa Musa partì per compiere, da devoto musulmano qual’era, il pellegrinaggio alla Mecca. La carovana che lo accompagnava contava decine di migliaia di uomini e cammelli carichi d’oro e si perdeva a vista d’occhio. Lo spettacolo doveva essere strabiliante. Anche volendo ribassare stime forse esagerate, la quantità d’oro che fu mossa in quell’occasione fu eccezionale. La lunga via del pellegrinaggio passava per
l’Egitto mamelucco e l’incontro di Mansa Musa con il sultano al-Malik an-Nasir Muhammad ibn Qalawun è riportato dallo storico siriano Ibn Fadlallah al-Umari. Il Cairo era all’epoca una delle città più ricche del mondo musulmano e uno dei centri commerciali più importanti al mondo. Lo storico racconta che al suo passaggio in città Mansa Musa distribuì talmente tanto oro che il suo valore crollò producendo un’inflazione rovinosa che afflisse l’economia cairota per circa un decennio. Come ricorda l’autore, per anni gli abitanti del Cairo raccontarono l’incredibile storia della visita di Mansa Musa.
La storia del re del Mali dimostra quanto l’Africa subsahariana fosse parte integrante del mondo arabo nordafricano. Rettifica anche una percezione distorta che vede troppo spesso l’Africa subsahariana principalmente un mercato di schiavi. Per secoli l’Africa è stata invece la fonte del metallo più prezioso al mondo: le sue miniere hanno foraggiato grandi imperi come quello del Mali e permesso di creare quel dinaro d’oro che fu alla base dell’economia del medioevo islamico. Purtroppo la visione coloniale ha fatto passare l’idea aberrante che in Africa, come altrove, ci fosse bisogno di un padrone occidentale per gestirne le risorse, in particolare quelle minerarie. Mansa Musa avrebbe avuto certamente qualcosa da ridire.
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