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Libia – Verso le elezioni, con il fantasma del Rais

Redazione Assadakah - A quasi dieci anni dall’uccisione di Muammar Gheddafi, il dittatore che per 42 anni ha governato la nazione “inventata” di Libia, le sfide che aspettano il governo che forse uscirà dal voto presidenziale del 24 dicembre sono le stesse di allora. Si tratta di tenere insieme un Paese costituito da oltre centoquaranta tribù e composto da tre regioni – Tripolitania, Cirenaica e Fezzan - che storicamente guardano in direzioni opposte. Un crogiolo complicato dalla presenza di interferenze straniere che vanno da Ankara a Mosca, dal Ciad agli Emirati. Le prossime settimane saranno un test decisivo per la road map individuata lo scorso anno a Tunisi: al momento le certezze sono poche, salvo che i nostalgici – gli appartenenti allo storico clan del raìs – non hanno intenzione di restare a guardare.

I nomi dei candidati alle elezioni non sono ancora stati ufficializzati, ma i tre più famosi, su cui si concentrano le maggiori speculazioni, sono quelli di Aguila Saleh (presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk), Khalifa Haftar (che ha recentemente sospeso le proprie funzioni militari) e Saif al-Islam (il secondo figlio di Gheddafi, il cui obiettivo dichiarato è “ristorare l’unità perduta” della Libia).

La presenza di quest’ultimo - su cui pende un mandato di cattura internazionale per come organizzò la repressione della Primavera araba libica - è indicativa dell’influenza che ancora oggi esercita il clan del Colonnello, un entourage che conosce bene la Libia e il suo oro nero, quel petrolio che oggi si scambia a 80 dollari al barile e che rappresenta una leva inevitabile di potere.

Il 20 ottobre 2011 segna la data di inizio della Libia “liberata”. Dopo oltre due mesi di resistenza, cade la città di Sirte e il convoglio del raìs viene attaccato da aerei Nato. Il Colonnello viene quindi catturato vivo da forze del Cnt ma subito ucciso, come dimostreranno numerosi video che riprendono gli ultimi istanti di vita di Gheddafi. Anche il figlio Mutassim e il ministro della Difesa Abu Bakr Yunis Jabr vengono giustiziati. I tre corpi verranno sepolti in una località segreta nel deserto, dopo essere stati spostati da un congelatore commerciale in un magazzino di Misurata dove erano stati messi in mostra. La guerra civile termina con la cattura, il 19 novembre, dell’ultimo figlio di Gheddafi. Il 16 dicembre arriva la revoca da parte dell’Onu e degli Stati Uniti di tutte le sanzioni imposte alla Banca centrale libica nel corso dei mesi precedenti. Ma in realtà, a guardarsi indietro oggi, dopo dieci anni non è finito niente.

Dal punto di vista storico, Gheddafi non è morto, la sua eredità vive ancora oggi. Non è un caso se in questo momento il clan di Gheddafi sia ancora molto presente e forte, in quanto più organizzato dall’epoca del regime. Ci sono molte voci sul figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, che dovrebbe presentarsi alle elezioni. L’entourage del Colonnello – che gestiva il potere amministrativo oltre a quello militare – condiziona ancora molto quello che succede in Libia.

Il presupposto è che la Libia è una società di tipo tribale dove la governance del Paese resta divisa in due piani: da un lato abbiamo il governo centrale, dall’altro la componente tribale. Qui abbiamo una dicotomia: mentre la comunità internazionale non può che parlare con un governo centrale, in realtà i giochi si fanno anche da altre parti. E il clan gheddafiano tutt’ora esercita un ruolo importante: Saif al-Islam non è ‘solo’ il figlio di Gheddafi, è anche il rappresentante di una componente tribale che conta ancora nella Libia di oggi, avendo governato per 42 anni.

Gheddafi è riuscito a governare per tutto questo tempo non solo con il bastone - l’oppressione militare e una rete d’intelligence incredibile – ma anche con la carota: ha distribuito sapientemente sussidi e prebende alle varie tribù; alcune le ha solo oppresse, ma con la maggior parte ha usato entrambe le leve che aveva a disposizione. Ora tutti si auspicano che il prossimo governo non abbia più la leva militare. Va da sé che a prendere le redini del Paese può essere solo qualcuno in grado di stabilire una qualche forma di pace sociale, con un’equa distribuzione delle risorse. Oggi questo processo è facilitato da un prezzo del petrolio che non era così alto da tempo e che secondo molti analisti resterà elevato a lungo. Essendo gli introiti molto più alti, il governo avrà a disposizione leve più forti per cercare di accontentare un po’ tutti”.

La strada da qui al voto, però, è ancora incerta, come dimostra la recente sfiducia del Parlamento di Tobruk al governo guidato da Abdul Dbeibah. Chiaramente ci sono anche dei terzi incomodi, ovvero dei Paesi stranieri che continuano a esercitare un ruolo predominante. L’attore principale resta la Turchia, che per ragioni di revanscismo storico, politica estera assertiva e opportunità economiche ha tutto l’interesse a non lasciare il campo. E poi c’è la Russia, con i mercenari del gruppo Wagner ancora presenti nel Paese.

Pochi giorni fa a Ginevra è stato trovato un accordo sulla tabella di marcia per rimuovere “combattenti, mercenari e forze straniere” dal Paese. L’intesa - raggiunta dal Comitato militare 5+5 con il patrocinio dell’Onu e degli Stati Uniti - è stata accolta positivamente dalla comunità internazionale, ma la sua applicazione sul terreno non è affatto scontata. Secondo stime Onu, in Libia vi sarebbero circa 20mila tra militari, mercenari e combattenti stranieri.

A dieci anni di distanza dall’uccisione di Gheddafi, possiamo dire che la Libia resta un crocevia di presenze e interferenze internazionali, con una acidità portata da un problema ideologico di schieramento religioso tra sciiti e sunniti ma anche da una contrapposizione intra-sunnita. Abbiamo la Turchia, la Russia, l’Egitto, la Francia - che ha fatto della sua ambiguità la stella polare su cui si è orientata fino ad ora... In questo crocevia, forse, si è dimenticato proprio il popolo libico, che ha una storia molto complicata e divisiva al proprio interno tra Tripolitania, Cirenaica e Fezzan.

Ognuna di queste regioni ha un riferimento internazionale a cui si rivolge per aiuti o sostegno, o del quale sente la pressione. La Tripolitania ha l’Italia e l’Occidente in generale, la Cirenaica l’Inghilterra e l’Egitto, il Fezzan la Francia, che lo considera zona strategica per il proprio interesse nazionale, da sempre presidiata dalla legione straniera.

Quanto ad Haftar, ha giocato – e continua a giocare – un ruolo da protagonista perché è riuscito a incarnare un antico disagio della Cirenaica, la cui popolazione si è sempre sentita trascurata da parte del governo centrale di Tripoli. La Cirenaica - una zona in cui si produce tantissimo petrolio – ha sempre avuto la sensazione di dare molto e ricevere poco. Haftar si è fatto portavoce, anche dal punto di vista militare, di questo sentimento. Il tema che io vedo non è tanto ‘Haftar sì o Haftar no’, quanto la necessità da parte del governo di Tripoli di farsi carico di questo disagio sociale della popolazione della Cirenaica.

Per gli analisti, la vera sfida resta la governance del Paese: l’appuntamento elettorale di dicembre è un punto di partenza, non certo d’arrivo. Spesso tendiamo a guardare alle elezioni con una lente occidentale, che mal si adatta alle società tribali. In queste società, a prescindere dal governo, ci sarà sempre un sistema parallelo e fondamentale rappresentato dalle discussioni e dagli accordi tra i rappresentanti delle varie tribù”. Il tema, insomma, non è tanto di chi sarà il presidente: è se il futuro governo riuscirà a essere riconosciuto dalla struttura sociale della Libia.

Il problema della Libia dieci anni dopo l’uccisione di Gheddafi è che è stato fatto un errore colossale, frutto di ambizioni e interessi occidentali - soprattutto francesi, inglesi e americani. L’errore è stato quello di coprire il desiderio di far fuori Gheddafi con la pretesa della difesa e della protezione dei civili in quel momento di rivolgimento che aveva interessato prima la Tunisia, poi l’Egitto, la Siria e un po’ tutto il Medio Oriente. A pagare le spese è sempre stato il popolo libico, con cui la storia è stata tutt’altro che generosa.

Komen


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