Assadakah - Alla fine, Saif al Islam ha compiuto il grande passo. Probabilmente il più complesso e rischioso dei suoi 49 anni di vita. Il figlio di Muammar Gheddafi più politicamente impegnato, e in effetti considerato il suo probabile successore da ben prima degli stravolgimenti del 2011, esce dal suo nascondiglio sulle montagne di Nafusa e si candida alle elezioni presidenziali pianificate (ma non affatto certe) per il prossimo 24 dicembre.
I media locali trasmettono il video di lui vestito con la stessa jallabiah e lo stesso turbante color marrone che caratterizzarono le ultime apparizioni di suo padre, prima di essere linciato a Sirte il 20 ottobre 2011 dalle brigate della rivoluzione libica assistite dall’aviazione della Nato, mentre si reca agli uffici della commissione elettorale nella città meridionale di Sebah, al cuore del deserto del Fezzan. Un passo rischioso.
Tutt’ora sono in tanti che lo vorrebbero morto. Tra loro ci sono le vittime e i perseguitati politici nel quarantennio del regime di Gheddafi, oltre a tanti tra i ribelli che si unirono ai combattimenti contro le colonne lealiste dieci anni fa. Il tribunale di Tripoli lo condannò a morte in absentia nel 2015. E su di lui pende un mandato di arresto per «crimini di guerra» da parte della Corte Internazionale dell’Aja.
Saif al Islam, del resto, sa bene di essere una figura controversa. Lo era anche prima della rivoluzione. Laureato alla London School of Economics di Londra, ben accetto dalle diplomazie internazionali quale interlocutore moderato su cui cercare di fare leva per trattare con Muammar Gheddafi, in lui speravano anche gli oppositori che nel febbraio del 2011 miravano a rovesciare il regime evitando un bagno di sangue. Ma sin dai primi giorni delle rivolte violente di Bengasi, Saif scelse di sposare la linea dura del padre. E dette il suo pieno appoggio alla repressione armata. Salvo pentirsene all’inizio dell’estate e rilanciare la via del dialogo politico interno. Ma troppo tardi. A metà agosto i ribelli liberavano Tripoli grazie al continuo sostegno della Nato. Gheddafi si chiudeva a Sirte nell’ultima disperata resistenza. Saif cercava di fuggire verso l’Algeria. Ma veniva catturato in pieno deserto dalle milizie di Zintan solo pochi giorni dopo la morte del padre. Da allora divenne un prigioniero eccellente. Per lungo tempo parve che la sua esecuzione fosse imminente. Ma poi la frammentazione politica del Paese, la guerra tra milizie, la crisi economica ed il caos generale, mutarono il suo destino. Da nemico divenne alleato dalle milizie di Zintan, come lui stesso ha raccontato in un’intervista pubblicata dal New York Times agli inizi dello scorso luglio. Oggi la sua figura, sebbene continui ad avere legioni di nemici specie tra i ranghi dei Fratelli Musulmani, raccoglie consensi crescenti tra chi vede nell’uomo forte una possibile via d’uscita.
La nostalgia per gli anni di Gheddafi è ormai proporzionale alla disillusione per gli esiti della rivoluzione. Resta difficile capire quanto valga elettoralmente il consenso per Saif. A lui si contrappongono candidati popolari come l’attuale premier Abdul Hamid Dabeibah, o come pure l’umo forte della Cirenaica Khalifa Haftar (che di recente ha mandato il figlio Saddam a Tel Aviv per cercare il sostegno israeliano), e il presidente del parlamento di Tobruk, Aguila Saleh. C’è da aggiungere che le stesse elezioni restano in dubbio. Manca una legge elettorale condivisa, non è ancora chiaro se il 24 si voterà soltanto per il primo turno delle presidenziali, oppure anche per il rinnovo del parlamento. Le stesse nomine dei singoli candidati alla presidenza causano tensioni e crisi. La conferenza di Parigi il 12 novembre a parole ha cercato di dare legittimità internazionale al voto, ma alla prova dei fatti ha mostrato le enormi difficoltà che ancora ne complicano i preparativi. Non è neppure escluso un rinvio. Ma da oggi un dato è certo: Saif torna ad essere una figura attiva nel suo Paese e lo fa all’insegna della continuità col padre. La memoria di Gheddafi resta forte sulla scena politica della Libia.
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