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Libia - La Russia e la crisi dell' unipolarismo in nord-Africa

Maddalena Celano (Assadakah News) - La Libia rappresenta oggi una ferita aperta nella coscienza collettiva del Mediterraneo.





A distanza di oltre un decennio dall’intervento della NATO e dall’omicidio illegale di Muammar Gheddafi, il Paese nordafricano resta frammentato, insicuro e privo di un’autorità centrale riconosciuta da tutte le sue componenti. L’Occidente, promotore di quell’intervento “umanitario”, ha abbandonato la Libia al suo destino. Le promesse di libertà e democrazia si sono frantumate tra le milizie rivali, i traffici illeciti e la proliferazione di basi straniere. In questo quadro, la presenza russa in Libia non dovrebbe essere letta come un’aggressione, bensì come un tentativo di riequilibrio nell’ambito di una nuova architettura geopolitica multipolare.


La narrazione dominante e i suoi limiti


Secondo i think tank occidentali – come l’ECFR – la Russia sarebbe un attore destabilizzante, colpevole di sostenere le forze dell’Est libico (in particolare il generale Khalifa Haftar) e di infiltrare il Paese con compagnie militari private come l’Africa Corps, erede della Wagner. Ma questa lettura omette un dato fondamentale: la crisi libica è stata originata proprio da un’aggressione occidentale, fondata su pretesti e interessi geopolitici travestiti da difesa dei diritti umani. L’intervento del 2011 ha distrutto le strutture statali, eliminato il principale baluardo contro l’islamismo radicale nella regione e aperto un vaso di Pandora i cui effetti si fanno ancora sentire in tutto il Sahel.


La Russia come attore multipolare


La Russia, nella sua attuale strategia mediterranea e africana, non mira alla conquista, ma a difendere un ordine internazionale basato sulla sovranità nazionale e sull’equilibrio tra potenze. Il suo intervento in Libia risponde alla necessità di: contenere l'espansione delle reti jihadiste; rafforzare la sicurezza regionale; offrire un'alternativa al dominio occidentale attraverso relazioni bilaterali pragmatiche e orientate alla stabilità. Il sostegno russo a Haftar non è diverso – sul piano delle logiche geopolitiche – dal sostegno statunitense ai propri alleati in altre aree di conflitto. Tuttavia, mentre gli interventi USA vengono presentati come “legittimi”, ogni passo di Mosca viene demonizzato.


Il vero problema: il rifiuto dell’Occidente a cedere il controllo


Dietro le critiche europee alla Russia si cela il rifiuto profondo dell’Occidente a riconoscere la fine dell’ordine unipolare nato dopo la Guerra Fredda. L’Europa, incapace di gestire in modo autonomo la propria politica estera, continua a subire l’influenza statunitense e a considerare ogni presenza alternativa come un intralcio ai propri interessi strategici. Da qui le proposte dell’ECFR: isolamento di Haftar, sanzioni contro le reti vicine a Mosca, pressione diplomatica su Egitto, Algeria, Emirati e Turchia – Paesi che stanno anch’essi ridefinendo le loro alleanze in senso multipolare. Verso una soluzione condivisa Se l’Europa vuole davvero contribuire alla stabilità della Libia, dovrebbe: abbandonare ogni nostalgia coloniale e accettare la pluralità di attori presenti sul campo; promuovere un dialogo inclusivo che riconosca i diversi interessi regionali, senza pregiudizi ideologici; collaborare con Russia, Cina, Unione Africana e Nazioni Unite per favorire un processo di riconciliazione nazionale libico, senza egemonie. Solo un mondo multipolare, fondato sulla reciprocità, la sovranità e il rispetto delle culture locali, potrà garantire una pace duratura nel Mediterraneo.


Le radici storiche dell’ingerenza occidentale

Per comprendere appieno l’attuale crisi libica, è necessario fare un passo indietro e analizzare le dinamiche storiche del colonialismo italiano e della successiva influenza occidentale. La Libia, già teatro di violente repressioni durante l’occupazione fascista, non ha mai goduto di un autentico processo di decolonizzazione: la transizione dalla monarchia alla Repubblica di Gheddafi fu un tentativo autoctono di affrancamento, che però ha sempre incontrato la resistenza delle potenze atlantiche. La destabilizzazione del 2011 va quindi letta come una prosecuzione del paradigma coloniale con nuovi strumenti: media, soft power, e guerra per procura.


La manipolazione mediatica e il ruolo delle ONG


Nel 2011, i media occidentali hanno svolto un ruolo cruciale nel legittimare l'intervento della NATO, diffondendo notizie non verificate su presunti massacri ordinati da Gheddafi, come le famigerate “fosse comuni” mai rinvenute, o le accuse infondate di utilizzo sistematico di stupri come arma di guerra. Queste narrazioni, cariche di pathos e spesso prive di riscontri oggettivi, hanno costruito un consenso artificiale attorno a un'aggressione militare pianificata con largo anticipo.

Similmente, alcune ONG internazionali – spesso finanziate direttamente da governi occidentali o legate a fondazioni private con chiari interessi geopolitici – hanno contribuito a creare un clima di isteria morale funzionale all’uso della forza. Tali organizzazioni si sono presentate come arbitri della coscienza internazionale, ma hanno agito in modo selettivo e strumentale, ignorando le atrocità compiute dai cosiddetti “ribelli” appoggiati dalla NATO. Il ruolo dell’International Crisis Group, di alcune sezioni di Amnesty International, e dei report parziali di Human Rights Watch merita un’analisi critica, soprattutto per il loro impatto sulle decisioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Oggi, la stessa narrazione si riproduce in maniera speculare per giustificare l’ostilità verso la presenza russa e cinese in Africa e nel Mediterraneo, ignorando volutamente la complessità del contesto libico e riducendo il conflitto a uno scontro tra “democrazie” e “autocrazie”. Le élite occidentali, sostenute da un apparato mediatico globale egemonico, pongono l’accento sulla “minaccia autoritaria”, oscurando le dinamiche economiche, militari e strategiche che motivano realmente le loro politiche estere.

Inoltre, l’uso delle ONG come strumenti di soft power e destabilizzazione non è limitato alla Libia: analoghi modelli sono stati adottati in Siria, Venezuela, Ucraina, e in altri scenari dove l’Occidente ha cercato di orientare transizioni politiche in senso favorevole ai propri interessi. La sovrapposizione tra "società civile" e intelligence, tra "aiuto umanitario" e ingerenza geopolitica, è ormai un tratto distintivo del cosiddetto interventismo umanitario del XXI secolo.




L’effetto boomerang dell’interventismo

L'interventismo occidentale ha avuto ricadute non solo sul piano regionale, ma anche su quello europeo. La caduta di Gheddafi ha trasformato la Libia in un hub di traffici illegali e migrazioni incontrollate, con conseguenze drammatiche per l’Italia e l’Europa meridionale. Tuttavia, le stesse potenze che hanno favorito questo caos si rifiutano di assumersi le responsabilità politiche del disastro.


La Cina e la via dello sviluppo

Mentre la Russia agisce prevalentemente sul piano della sicurezza e della geopolitica, la Cina si sta affacciando sullo scenario libico con una proposta alternativa: infrastrutture, investimenti, cooperazione economica. Il modello cinese, non interventista e basato sul principio della non ingerenza, viene sempre più percepito in Africa e Medio Oriente come una valida alternativa al ricatto condizionale delle “democrazie liberali”.


Il nodo delle risorse energetiche

Un altro aspetto fondamentale, spesso taciuto nella narrazione occidentale, è quello delle risorse. La Libia possiede le riserve petrolifere più abbondanti dell’Africa. Il controllo di questi giacimenti – e delle rotte energetiche – è una delle motivazioni principali dell’interesse di potenze esterne, compresa l’UE, che oggi maschera il proprio neo-colonialismo con la retorica “verde” della transizione energetica.




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