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Libia – Italia e Cina contro traffico di esseri umani e terrorismo


Assadakah News - Quanto si è avvicinata la Cina al Medio Oriente e alle sponde del Mediterraneo? Dobbiamo preoccuparci per la sua presenza? Ne parla in questa intervista al Corriere della Sera Zhai Jun, che dal 2019 è Inviato speciale del governo cinese per gli affari mediorientali. E per dimostrare le buone intenzioni di Pechino propone di lavorare insieme per stabilizzare la Libia, investendo nella pace. La posizione di emissario in Medio Oriente non è nuova nella diplomazia cinese: è stata istituita nel 2002 e vent’anni fa l’ascesa della Repubblica popolare verso il rango di superpotenza geopolitica, proiettata fino al «cortile di casa» europeo, era ancora fuori dai nostri radar. Ma a Pechino evidentemente già si preparavano. Zhai Jun è un diplomatico esperto che è stato di base in Yemen, Arabia Saudita, ambasciatore in Libia e in Francia, viceministro degli Esteri. Parla l’arabo: fu mandato a studiarlo all’Università del Cairo negli Anni 70. Ambasciatore Zhai, perché Pechino ha bisogno di un inviato speciale per le lontane questioni mediorientali? «Perché senza un Medio Oriente stabile non ci sarà pace nel mondo. La Cina è membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu ed è un grande Paese responsabile; nel 2002 ha deciso di nominare un Inviato speciale per l’area, che fu il nostro primo rappresentante dedicato ai temi regionali caldi (oggi ce ne sono diversi altri, l’ultimo è appena stato nominato per il Corno d’Africa, ndr). In questi vent’anni gli inviati cinesi hanno partecipato profondamente ai dossier di Palestina e Siria, promosso il dialogo, mediato tra le parti, ed hanno mantenuto i contatti con Europa, Stati Uniti e Russia. Di recente, sotto l’impatto di cambiamenti senza precedenti da un secolo e di questa pandemia, l’incertezza e l’instabilità nella regione sono notevolmente aumentate, il deficit di pace, di sicurezza e di sviluppo è cresciuto. Noi cerchiamo di infondere energia positiva». Però, noi europei vediamo che Pechino sta cercando di inserirsi negli spazi fuori dall’Asia, allargando la sfera d’influenza fino al Mediterraneo.

«La Cina fa solo quello che dice. È impegnata per risolvere la questione nucleare iraniana; per la Siria; per la Libia; per implementare la soluzione dei due Stati tra israeliani e palestinesi sulla base “terra in cambio di pace”. Noi vogliamo sicurezza e stabilità di lungo termine e offriamo il nostro contributo di saggezza per tutelare equità e giustizia internazionale. Siamo per il rispetto dell’indipendenza, della sovranità, dell’integrità territoriale, per vie di sviluppo autonomamente scelte dai Paesi regionali, noi ci opponiamo all’interferenza estera negli affari interni di altri Paesi. Pensiamo che la comunità internazionale debba unirsi nello sforzo di colpire il terrorismo, eliminandone sia i fenomeni sia le origini, affinché terroristi ed estremisti non si espandano approfittando del disordine». Ci dà qualche esempio concreto della vostra azione? «Dopo lo scoppio della pandemia, abbiamo fornito ai Paesi del Medio Oriente una notevole quantità di materiali e risorse sanitarie, mandato gruppi di esperti medici in otto Paesi dell’area, donato ed esportato già 430 milioni di dosi di vaccini e collaboriamo alla loro produzione con Emirati Arabi Uniti, Turchia, Egitto e Algeria: il nostro è un modello di cooperazione internazionale nella lotta al coronavirus». Il Medio Oriente è strategico per le risorse energetiche. È per questo che vi sta tanto a cuore? «La Cina sta dando una spinta allo sviluppo e al miglioramento del benessere delle popolazioni nell’area. Dal gennaio all’ottobre 2021 il volume dei nostri scambi commerciali con il Medio Oriente ha raggiunto circa 320 miliardi di dollari, con una crescita del 33% rispetto al 2020. Quasi la metà del petrolio greggio che importiamo proviene dal Medio Oriente, mentre noi abbiamo costruito e sostenuto la costruzione di una molteplicità di infrastrutture e progetti civili, tra cui il dissalatore di Umm al-Qaywayn negli Emirati Arabi, l’impianto fotovoltaico in Giordania e il ponte sul fiume Jur in Sud Sudan». Come valuta la situazione in Libia? «Io sono stato ambasciatore a Tripoli dal 1997 al 2000. A quel tempo, la Libia era pacifica e tranquilla, conosciuta come la “Sposa del Mediterraneo”. Dal 2011, è entrata in un tumulto prolungato, con devastazioni, profughi; sapete bene che i problemi dei rifugiati e del terrorismo causati dal conflitto hanno avuto un grave impatto sulla sicurezza dell’Europa; bisogna riflettere e trarre lezioni sul perché la questione libica si è involuta fino a questo punto. Ora speriamo che tutte le parti partecipino alle elezioni generali.

La comunità internazionale dovrà dare un forte sostegno allo sviluppo economico e alla lotta contro la pandemia e dare la stessa attenzione ai negoziati politici e all’azione contro il terrorismo». E come vedete da Pechino l’impegno dell’Italia in Libia? «L’Italia ha un’influenza importante sul dossier libico e ha partecipato attivamente alla mediazione internazionale. Ho notato che il ministro degli Esteri Di Maio ha espresso sostegno ad elezioni eque e inclusive. Pechino e Roma hanno posizioni simili sulla questione: entrambi sosteniamo una soluzione politica, il rispetto della volontà e della scelta del popolo libico e ci opponiamo all’interferenza di forze esterne. Credo che Cina e Italia potranno rafforzare ulteriormente comunicazione e collaborazione». Abbiamo chiesto all’inviato di Pechino qual è lo stato della collaborazione italo-cinese sulla nuova Via della Seta, perché quando il governo italiano firmò il memorandum d’intesa sulla Belt and Road nel 2019 si era parlato di progetti comuni per infrastrutture in Africa. Zhai Jun non ha risposto «perché non sono responsabile del dossier bilaterale», ma intanto tiene aperto un ulteriore canale di contatto: a dicembre ha partecipato al Dialogo Mediterraneo organizzato a Roma da Farnesina e Ispi. Non si parla quasi più di dialogo israelo-palestinese. Che cosa sta facendo la Cina? «La questione palestinese è fondamentale in Medio Oriente, è irrisolta da più di 70 anni, i legittimi diritti nazionali del popolo palestinese non sono ancora stati ristabiliti. Bisogna perseverare sul consenso “terra in cambio di pace”, promuovendo la fondazione dello Stato di Palestina con i confini del 1967, Gerusalemme Est capitale, completa sovranità e l’indipendenza. Serve imparzialità, per aiutare la ricostruzione della fiducia reciproca tra Palestina ed Israele. Secondo la Cina queste sono le priorità: innanzitutto, dobbiamo rafforzare la credibilità dell’Autorità Nazionale Palestinese e concederle il potere di esercitare le funzioni di sovranità nazionale per la sicurezza e le finanze, in modo da farle realizzare un efficace controllo dei territori autonomi e di quelli occupati; in secondo luogo, dobbiamo dare appoggio al consolidamento dell’unità tra diverse fazioni all’interno della Palestina, allo scopo di formare un fronte unito per le trattative; in terzo luogo, dobbiamo incoraggiare la Palestina a riprendere le trattative in base alla soluzione dei due Stati. Pechino chiede la convocazione di una conferenza di pace guidata dall’Onu e sostiene fermamente la giusta causa del ristabilimento dei legittimi diritti nazionali del popolo palestinese, ed ha promosso tentativi di conciliazione tra Palestina ed Israele, colloqui e coordinamento con i Paesi della regione, mettendosi in contatto con le parti principali come Stati Uniti e Russia»

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