Talal Khrais - “Mio marito ha bisogno di cure ma non ha assicurazione medica perché è disoccupato: l'unico aiuto lo abbiamo dalle suore del Buon Pastore". Ha detto una signora disperata all’Agenzia Dire. I libanesi a causa della crisi economica e finanziaria non muoiono di fame perché la solidarietà tra loro è forte, ma tanti, tanti libanesi muoiano di malattie o di mancanza di ossigeno negli ospedali.
In Libano, con ormai tre persone su quattro in povertà, quella sanitaria è un'emergenza nell'emergenza. Spesso gli scaffali delle farmacie e dei centri di prima assistenza sono vuoti.
Gli organismi internazionali spesso denunciano speculazioni degli importatori, mentre si moltiplicano le chiamate d'aiuto al Dispensario. A chiarire come stiano le cose parla padre Michel Abboud, presidente di Caritas Libano. "Chi un tempo donava ora ci chiede aiuto" spiega allargando le braccia. Non fa nomi, né condivide contatti per nuove interviste, perché c'è la dignità da difendere, il bene più prezioso per i libanesi.
Il premier libanese Najib Miqati esclude la possibilità delle dimissioni e sottolinea che il governo di Beirut, che ha ottenuto la fiducia del Parlamento lo scorso 20 settembre, non si riunirà "prima di aver trovato una soluzione" nel mezzo della disputa sull'inchiesta sulla devastante esplosione al porto di Beirut che il 4 agosto dello scorso anno fece più di 200 morti. Le dimissioni "non sono sul tavolo", ha detto Miqati in un'intervista al sito di notizie Al Modon. "Il Paese non può essere abbandonato in queste circostanze - ha aggiunto - Abbiamo compiti essenziali e chiari. Mettere a punto un piano di riforme economiche e celebrare le elezioni parlamentari". "Non convocherò il Consiglio dei ministri prima che si sia trovata una soluzione al problema", ha detto ancora Miqati, assicurando che "non interferirà" con il sistema giudiziario, che "deve trovare una soluzione", e che "non interferirà con il lavoro di Tarek Bitar", il giudice titolare dell'inchiesta sull'esplosione. "Ci sono leggi e una Costituzione che non vanno ignorate", ha proseguito riguardo l'inchiesta, parlando di una "situazione di sicurezza stabile" dopo che giovedì scorso sette persone sono morte a Beirut durante una protesta contro Bitar, contestato in particolare da Hezbollah e Amal.
Per Miqati, "la soluzione" alla crisi aggravata dagli scontri della scorsa settimana "è politica" e "il Libano è il Paese degli equilibri che devono essere rispettati da tutti". Un Paese non solo devastato da una crisi economica e finanziaria ma anche politica.
Il patriarca maronita del Libano, Beshara al Rahi, ha espresso il proprio sostegno ai residenti di Ain al Remmaneh e a coloro che sono stati arrestati a seguito degli scontri mortali a Tayyouneh, nella periferia della capitale. Nell'omelia di domenica, il prelato ha detto: "Con la sua legittimità, le sue istituzioni e la sua magistratura, allo Stato è chiesto di proteggere la sua gente e prevenire attacchi contro di loro e di agire con saggezza, correttezza e imparzialità. Non dovrebbe coinvolgere la magistratura e mettere in pericolo la pace civile, visto che l'ingiustizia produce oppressione e l'oppressione porterebbe a un'esplosione". Inoltre, poiché "crediamo nella giustizia, non accettiamo che chi ha difeso la propria dignità e la sicurezza del proprio ambiente venga trasformato in un capro espiatorio". Sette persone sono state uccise il 14 ottobre, per la maggior parte membri dei movimenti Hezbollah e Amal, durante una protesta organizza da dai due gruppi per chiedere la rimozione di Tarek Bitar, il giudice che indaga sulla devastante esplosione nel porto di Beirut. Successivamente, Hezbollah e Amal hanno accusato le forze libanesi, che sostengono l'indagine, di essere responsabili del fuoco dei cecchini contro i manifestanti che hanno acceso gli scontri di strada ad Ain al Remmaneh.
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