(a cura di Lorenzo Somigli) - Questa analisi è stata scritta da Joseph Maïla, professore di geopolitica e direttore del programma di mediazione dell’Istituto per la ricerca e l’educazione alla negoziazione (IRENE) presso l’Ecole Supérieure des Sciences Economiques et Commerciales (ESSEC), Parigi.
Dopo la raccolta di riflessioni “Volere o votare?” e il primo contributo pubblicato da Democracy Reporting International – Lebanon (DRI) a firma di Makram Rabah “Un passo debole ma nella giusta direzione”, oggi riprendiamo l’analisi di Joseph Maïla, pubblicata sempre da DRI.
I punti cardine dell’analisi di Joseph Maïla sono i seguenti: L’emersione della società civile e i dilemmi organizzativi; Processo elettorale e irregolarità. Peso di Hezbollah; Cristiani, Sciii, Sunniti, società civile: voti e rappresentanza; Radicalismi e tipologie di voto (ideologico, clientelare, regionale); Permeabilità del sistema e influenze straniere.
Il primo motivo di incertezza nasceva dall’idea che, al di fuori di una politica aggrappata ai suoi privilegi, inerte ma dotata di potenti mezzi di pressione, ora nascosti ora palesi, non potesse succedere alcunché.
La classe dirigente, seppur frastornata dalla rivolta popolare dell’ottobre 2019, aveva saputo contenere gli assalti della “Rivoluzione” ed era riuscita a sopravvivere alle conseguenze dell’esplosione del 4 agosto 2020.
La terribile situazione economica e il dramma sociale derivatone, insieme alla massiccia fuga all’estero, soprattutto di giovani, sembravano lasciar presagire una profonda rassegnazione da parte dei libanesi.
Il sistema di potere non aveva mai subito contraccolpi. Mesi e mesi di protesta non erano riusciti a scalfire la coalizione di governo. Dietro i successivi momenti politici dal 17 ottobre 2019 – alternati tra un governo di tecnocrati, l’interminabile intermezzo del capo di governo incaricato di formare un nuovo governo e un governo in preparazione alle elezioni legislative – il tempo aveva lavorato a favore di una convergenza di interessi contrari al cambiamento, tra il consorzio di banche, tra cui la Banca Centrale del Libano, e le milizie di Amal e Hezbollah. Questi ultimi, armati di bastoni e montati su motociclette, non avevano esitato a sedare con la violenza la rivolta in presenza di un esercito libanese che, sebbene precario per la situazione economica delle truppe, non ha rinunciato al suo ruolo di garante dell’ordine pubblico. Le forze di sicurezza incaricate di presidiare il capo del parlamento (quasi 430 persone), hanno avuto meno scrupoli e hanno sparato proiettili veri o di gomma contro la folla che circondava l’Assemblea nazionale durante i massicci moti del 2019.
Il secondo motivo era dovuto allo spettacolo senza speranza offerto da un’opposizione che, sicuramente, aveva saputo mobilitarsi dal 17 ottobre 2019 ma che, da allora in poi, aveva esaurito le sue forze, perdendosi in futili litigi, senza mai riuscire a fare fronte comune. «Era avvenuto un vero e proprio risveglio della società civile. La diversità delle sue correnti, segno della vitalità democratica, non ha tardato, però, a trasformarsi in un teatro pubblico per la rappresentazione degli ego rivoluzionari. Questa varietà si è mischiata a una disunione senza speranza e strategia elettorale».
Nessun coordinamento tra liste elettorali, poche consultazioni, l’insistenza dei singoli partiti a marcare la propria centralità, gruppi o piccoli gruppi risultanti dei moti popolari e alcuni progetti che erano più che altro vere e proprie manifestazioni di narcisismo. Di fronte a questo quadro di debolezza strategica dei candidati indipendenti espressione della “Rivoluzione d’Ottobre”, le elezioni del 15 maggio 2022 vanno lette alla luce di diversi contesti.
In primo luogo, lo svolgimento della campagna elettorale è segnato da intimidazioni e violenze, ma soprattutto da un accesso ineguale ai media e alla pubblicità nello spazio pubblico, anche a causa delle risorse finanziarie sproporzionate tra i candidati.
La cornice era quella dalla legge elettorale, una legge varata nel 2017 e modellata sulle esigenze della coalizione di governo, che combinava un voto proporzionale con liste chiuse all’interno di quindici circoscrizioni e un voto preferenziale, generalmente derivante da una scelta confessionale, a favore di un solo candidato. «Una legge elettorale che aveva un intento nemmeno troppo nascosto ma dal funzionamento ambiguo perché, in parte, si è rivoltata contro i suoi ideatori, permettendo di eleggere un certo numero di candidati dell’insurrezione popolare o indipendenti». Tuttavia, quello che sembra essere l’elemento contestuale più idoneo a far sorgere un serio sospetto di illegalità nel processo elettorale è il modo in cui si sono svolte le elezioni nelle aree sotto il controllo quasi esclusivo di Hezbollah, dove lo Stato non è forte o è proprio del tutto assente.
Nel Libano meridionale, in alcune regioni della Bekaa o nei distretti di Baalbeck o Hermel, sono state rilevate gravi irregolarità, che vanno da intimidazioni a voci di riempimento delle urne o mancato conteggio dei voti dei libanesi dall’estero, come rilevato da missioni di osservazione locali e internazionali. Da quel momento in poi, il risultato è stato già scritto. I 27 seggi assegnati alla comunità sciita sono stati vinti, come nelle elezioni del 2018, dai candidati del tandem Amal-Hezbollah. Senza asserire un certo nesso causale tra il controllo del campo e quello delle elezioni, va indagata l’ipotesi di una forte correlazione. Va anche notato che sono perdurate le pratiche legate al clientelismo, al peso dei clan elettorali, due classiche piaghe che influenzano il comportamento degli elettori in Libano. Le missioni di osservazione elettorale hanno anche criticato le deplorevoli condizioni degli uffici elettorali, il mancato rispetto dell’obbligo di voto in cabina o lo spoglio dei voti all’ombra di luci di fortuna per mancanza di corrente. «Pur non rappresentando una novità, questo svolgimento irregolare delle elezioni macchia il processo elettivo e ne sottopone i risultati alla mercé delle forze politiche meglio organizzate e in controllo del campo». A urne chiuse: la nuova configurazione parlamentare - Ciò che mostrano i risultati elettorali si può dividere in tre livelli di comprensione. La prima è quella del tasso di partecipazione, che ha raggiunto il 49,1%. Una cifra indicativa, quando si conosce la scarsa affidabilità di liste elettorali mal tenute, non aggiornate per motivi di negligenza o per intenzioni fraudolente. Un dato basso, tuttavia, data l’entità della rivolta, che avrebbe potuto innescare una maggiore partecipazione.
L’entusiasmo del voto dei libanesi nella diaspora – quasi 160.000 voti in un ballottaggio aperto per la prima volta ai libanesi all’estero – che ha portato alla partecipazione di oltre il 60% degli elettori iscritti e che è stato determinante in quattro circoscrizioni dove lo scrutinio era in bilico. «In attesa di risultati più sostanziati e consolidati, sembrerebbe, date alcune stime, che un terzo dei voti di emigrazione sia andato a candidati anti-establishment: indipendenti, non allineati, di opposizione o che si presentassero dalle file del popolo rivolta di ottobre 2019».
In termini di risultati politici, quindi, e in termini di seggi conquistati dalle varie forze, i risultati sono sfumati. Spiccano cinque grandi blocchi. Il primo appartiene all’ex maggioranza parlamentare, il Partito cristiano, base e sostegno del potere del Presidente della Repubblica, il Movimento Patriottico Libero perde lustro ed esce relativamente indebolito nel suo ambiente confessionale al termine di uno scontro in cui il suo leader è stato duramente attaccato. Perde seggi ma conserva l’essenziale per il contributo dei voti principalmente delle formazioni sciite.
Le forze sciite di Amal e Hezbollah, che sono i pilastri del potere frutto delle elezioni presidenziali del 2016 e che controllano in larga parte l’amministrazione libanese e i suoi centri di potere, conservano tutti i seggi riservati alla comunità sciita. Tuttavia, non possono che notare la fortissima protesta all’interno di tutte le comunità di fede del Paese per la detenzione di armi fornite dall’Iran. Avranno subito soprattutto una ferita simbolica, risuonata nella propria opinione popolare con l’elezione, nella loro roccaforte meridionale, di due candidati non sciiti di una lista di opposizione. Tra di loro, le formazioni sciite totalizzano una trentina di seggi su 128 senza contare gli indipendenti aggiuntivi nel loro cerchio di movimento.
La comunità sunnita, dal canto suo, esce da queste elezioni molto indebolita e frammentata. Dilaniate tra l’appello al boicottaggio lanciato dal suo leader e leader del Movimento Futuro in esilio volontario, Saad Hariri, e l’invito dell’autorità spirituale della comunità, sostenuta dall’Arabia Saudita, alla partecipazione, le formazioni sunnite appaiono frammentate, sparse, distribuite lungo linee di contraddittorie divisioni politiche. La scarsa partecipazione della comunità sunnita avrà sicuramente contribuito al calo dell’affluenza alle urne. Più grave, invece, è quella che potrebbe essere una scomparsa della comunità sunnita dalla politica che potrebbe incidere in modo permanente sugli equilibri comunitari del paese.
Passate all’opposizione dall’inizio della rivolta, le Forze Libanesi hanno dichiarato vittoria all’uscita delle urne. È vero che hanno aumentato il numero dei loro seggi senza però formare il gruppo parlamentare di testa. Hanno beneficiato allo stesso tempo, sul piano dell’opinione cristiana, degli attacchi compiuti contro di loro da Hezbollah, della disaffezione nei confronti del Movimento Patriottico Libero e, in alcune circoscrizioni, del contributo dei voti di emigrazione. Sembrano determinati a svolgere un ruolo di primo piano durante la legislatura che si apre con, in fin dei conti, le elezioni presidenziali in cui si candida il loro leader.
La vittoria più evidente è quella del gruppo di insorti del movimento popolare di ottobre che riescono, contro ogni previsione, a sfondare il muro dei partiti confessionali, la cerchia delle famiglie tradizionali e la legge elettorale comunitaria, ritrovandosi in tredici eletti all’Assemblea Nazionale. «Questa presenza nel parlamento libanese costituisce una svolta nella vita politica libanese. Senza essere una rivoluzione a livello di rappresentanza nazionale, avvia una svolta senza precedenti».
Divisa, senza un unico progetto nazionale, ma con una panoplia di riforme in gestazione, la protesta disorganizzata (tranne in alcuni collegi dove è andata a buon fine la formazione di un’unica lista, garanzia di successo, come nello Chouf o nel terzo collegio meridionale), è il risultato dell’effervescenza popolare e, in qualche modo, dovrà organizzarsi politicamente.
Infine, rimane un numero relativamente piccolo di forze isolate, alcune delle quali potrebbero unirsi alla corrente del cambiamento politico, come il gruppo Kataëb (quattro membri) e Neemat Frem a Kesrouan. Altri gruppi come il Partito Socialista Progressista nello Chouf (nove deputati), il Marada (due deputati), principalmente nel Nord del Libano; parimenti, alcune figure politiche senza particolari legami o affiliazioni potrebbero appoggiarsi ai pilastri dell’ordine politico ancora prevalente.
Quali conclusioni? La Camera del 2022 risulta composta da blocchi con numeri più o meno identici; un parlamento polarizzato dagli estremi già radicalizzati, Hezbollah e le forze libanesi, ai quali si aggiunge un radicalismo di matrice sunnita seppur di minore intensità. Una radicalizzazione di matrice “rivoluzionaria”, inoltre, né nell’aula parlamentare e nemmeno in piazza, visto l’aggravarsi della crisi.
La formazione dei prossimi governi, solitamente difficile tra alleati, si preannuncia complicata. Si segnalano, inoltre, in attesa di ulteriori conferme a livello di altre elezioni nazionali, alcune tipologie di voto.
In primo luogo, si afferma un voto ideologico, strutturato intorno a partiti che rivendicano una forte identità nazionale e religiosa, non escludendo il confronto con l’avversario in nome della difesa del gruppo e dei suoi valori. È il caso delle Forze Libanesi e di Hezbollah. Fortemente aiutati dall’estero, si accusano a vicenda di lavorare per conto delle potenze regionali. Queste accuse, a volte vere e proprie voci, sono anche e soprattutto una prerogativa retorica, non esclusiva però, di questi partiti.
Un secondo voto è quello che va a favore di partiti con un predominio carismatico-clientelista molto marcato. Se il clientelismo è, ovviamente, la pratica più condivisa all’interno del sistema politico libanese, tanto più all’epoca delle consultazioni elettorali, resta il fatto che partiti come Amal o il Courant Patriotique Libre hanno fatto leva clamorosamente sulle prebende. Hanno così fatto beneficiare della loro generosità sostenitori, simpatizzanti e piccoli partiti satelliti. Questi partiti ruotano attorno a una mistica del leader che prevale sull’ideologia e sul programma politico, in gran parte inesistenti e che ne segnano una fragilità strutturale.
Un terzo tipo di voto, tutto da testare nella sua solidità, è quello che ha portato, per la prima volta e con forza, i “rivoluzionari” nell’arena parlamentare. Questo voto era volto a rompere con le divisioni tradizionali o le alleanze personali e ideologiche. È innovativo ma resta in balia dell’efficacia dell’azione dei nuovi arrivati nel sistema politico libanese e dell’evoluzione del movimento popolare. Questa tipologia del voto non intende racchiudere ogni comportamento elettorale in categorie rigide o impermeabili. Il tradizionale voto dominante esiste ancora in Libano, caratterizzato da legami familiari, regionali e confessionali. Tende a indebolirsi? È troppo presto per dirlo, soprattutto perché è alla base di tutti i tipi di voto. «Segno dei tempi, il voto ideologico prevalentemente regionale, nazionalista arabo baathista, nasserista o filopalestinese, o addirittura nazionalista della Grande Siria, tende a non avere più rappresentanza parlamentare». Il voto a maggioranza musulmana, come quello del gruppo Ahbaches a Beirut, talvolta anche islamista, punta a un tropismo da parte di uno stato estero più che a un riferimento a una guida religiosa come intende fare Hezbollah mobilitandosi a favore dell’Iran. Viene a formarsi, per entrare dentro i meccanismi del sistema politico libanese, un rapporto di affinità tra le forze politiche libanesi e alcuni Stati stranieri qualunque essi siano. «Il regime politico libanese nella sua attuale costituzione resta un sistema permeabile, aperto ai venti dell’internazionalizzazione e dell’intervento straniero».
Un orizzonte carico di minacce presenti e future, non meno importanti delle gravi e urgenti sfide economiche e sociali che la rinnovata classe politica e i nuovi esponenti dell’opposizione dovranno affrontare. Dalle elezioni legislative libanesi del 15 maggio 2022 molti cittadini e molti osservatori non si aspettavano nulla. O quasi. C’erano diverse ragioni per questa prognosi.
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