Roberto Roggero* - Per l’assistenza ai profughi palestinesi è la United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (UNRWA), nata nel 1949, che si occupa di istruzione, sanità e altri servizi in 58 campi di rifugiati del Medioriente. La presenza di profughi o emigrati palestinesi in molti Paesi del Medioriente condiziona talvolta le scelte politiche dei governi, in particolare nel caso del Libano e della Giordania.
La maggior parte dei Paesi del mondo intrattiene rapporti sia con Israele, sia con l’ANP. Sul piano politico, molti Paesi non occidentali criticano la politica israeliana, in particolare la costruzione di insediamenti in Cisgiordania e l’uso eccessivo della forza contro gli arabi palestinesi, ma coltivano ugualmente rapporti diplomatici e commerciali con lo Stato ebraico. Naturalmente, vi sono differenze nella posizione diplomatica dei singoli Paesi.
I Paesi del continente africano sono stati per molti anni schierati, in maggioranza, dalla parte della Palestina, interpretando la sua lotta contro Israele come un elemento della guerra contro il colonialismo occidentale. Negli ultimi anni, però, diversi Stati dell'Africa hanno stretto rapporti di cooperazione commerciale con Israele e importano da esso beni necessari per la loro economia, il che influenza la loro posizione diplomatica. Tra i sostenitori della “tolleranza” figura la Cina, che è uno dei principali partner commerciali di Israele, anche per il commercio di armi, ma sostiene la fondazione di uno Stato palestinese alle Nazioni Unite, critica la politica israeliana e coltiva rapporti molto stretti con il mondo arabo. Anche la Russia riconosce sia Israele sia la Palestina. Una parte significativa della popolazione israeliana è di origine russa, al punto che il russo è la terza lingua più parlata del Paese dopo l’ebraico e l’arabo, e le relazioni diplomatiche e la cooperazione commerciale tra i due Paesi sono strette. La Russia, però, in genere non sostiene la posizione israeliana nei consessi internazionali.
La risoluzione ONU del 27 ottobre - presentata da quasi 50 Paesi, tra cui Turchia, Palestina, Egitto, Giordania, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (EAU) - è stata approvata con 120 voti favorevoli, 14 contrari e con 45 nazioni che hanno scelto di astenersi. Il testo della risoluzione condanna “tutti gli atti di violenza contro i civili palestinesi e israeliani, compresi tutti gli atti di terrore e gli attacchi indiscriminati, nonché tutti gli atti di provocazione, incitamento e distruzione”. Chiede inoltre che “tutte le parti rispettino immediatamente e pienamente i loro obblighi di diritto internazionale”.
La risoluzione è stata prontamente rifiutata da Israele, che tramite il suo ambasciatore alle Nazioni Unite, Gilad Erdan, ha parlato apertamente di mancanza di legittimità dell’organo internazionale. Nella pratica, dunque, nonostante il supporto della maggior parte degli Stati, la risoluzione rimane priva di efficacia pratica. La proposta, tuttavia, fornisce uno esempio di come si stia schierando il mondo in merito alla nuova escalation del conflitto israelo-palestinese. Soprattutto per le grandi potenze, globali e regionali, la questione si inserisce in ragionamenti strategici più ampi, spesso di carattere geopolitico e geoeconomico. Partendo dalla risoluzione ONU, prendiamo in esame le ragioni dietro le posizioni assunte da alcuni attori cruciali della scena internazionale (Stati Uniti, Cina, Turchia, India, Russia, Brasile, Italia) che possono inoltre avere un peso esterno rilevante per favorire una eventuale de-escalation del conflitto.
Da quando è scoppiata la crisi a Gaza gli Stati Uniti sono stati inequivocabili nella loro presa di posizione, sostenendo appieno Israele, al netto delle divergenze politiche tra l’amministrazione dell’attuale presidente statunitense Joe Biden e quella del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. In passato, Biden aveva più volte criticato il governo di estrema destra guidato da Netanyahu, ma dopo l’attacco del 7 ottobre tutti gli attriti sono stati sostanzialmente messi da parte.
Le parole del segretario di Stato americano Antony Blinken sono un chiaro ritratto della posizione statunitense: “Potreste essere abbastanza forti da soli per difendervi, ma finché esisterà l’America, non dovrete mai farlo. Noi saremo sempre al vostro fianco”.
Gli Stati Uniti hanno profondi legami storici ed economici con Israele. Fin dalla Seconda guerra mondiale, gli USA hanno sostenuto la formazione di uno Stato ebraico e, a oggi, sono il primo partner commerciale di Israele, con uno scambio bilaterale annuo di quasi 50 miliardi di dollari in beni e servizi. Soprattutto, Tel Aviv ha un valore strategico inestimabile per gli interessi di Washington in Medio Oriente, essendo un alleato democratico e schierato con l’asse occidentale in una regione politicamente ostile all’Occidente. Seppur negli anni gli Stati Uniti abbiano diminuito il loro impegno nella regione, l’area rimane centrale per gli equilibri geopolitici e per l’accesso alle forniture regionali di petrolio, da cui l’America continua in parte a dipendere (Canada 52%, Messico 10%, Arabia Saudita 7%, Iraq 4%).
(* Direttore responsabile Assadakah News)
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