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Joe Biden: “Due ambasciate a Gerusalemme”

Aggiornamento: 6 lug 2021

Roberto Roggero – Il presidente americano Biden sembra avere tutte l’intenzione di cestinare il tanto pubblicizzato, quanto scadente, Deal of the Century dell’amministrazione Trump, e portare alla luce quello che, attualmente in fase di progetto, dovrebbe essere denominato “Piano Americano per la Palestina: la via da seguire”.

Su questa traccia, Biden pare avere imparato la lezione del colossale e meritato fiasco del predecessore, e manifesta l’intenzione di rinsaldare i rapporti con l’Autorità Nazionale Palestinese. Un buon inizio, e prova di volontà, è stata la decisione di ripristinare gli aiuti economici bloccati da Trump con 15 milioni di dollari destinati all’acquisto del vaccino anti-Covid. Ulteriore prova, la notizia della futura riapertura del Consolato Generale USA a Gerusalemme, destinato all’assistenza e al collegamento con la parte palestinese, ma non è stato fatto alcun passo indietro circa il riconoscimento della Città Santa come capitale di Israele, che Trump aveva annunciato con inopportuno tempismo, nel 2017 e non approvato dalla maggior parte dei Paesi del mondo. Questo ipotetico piano comunque rimarrà nel cassetto della scrivania nello Studio Ovale nei prossimi mesi. Né Biden può permettersi di non considerare Hamas, organizzazione che detiene il controllo della Striscia di Gaza, e che ha le carte in regola per bissare la vittoria delle elezioni legislative palestinesi del 2006 e potrebbe portare a una replica del boicottaggio e isolamento del governo e del parlamento palestinese che attuarono USA, UE e Israele. A maggior ragione se il suffragio che dovrebbe tenersi entro la fine del 2021 non riconfermerà Abu Mazen alla guida dell’ANP.

L’ispiratore del nuovo progetto americano sarebbe Joey Hood, assistente per il Medio Oriente nell’ufficio del Segretario di Stato, Anthony Blinken, il quale si sarebbe ispirato alle condizioni geopolitiche del 1967, con scambi di territori concordati e accordi sulla sicurezza e sui profughi. nonché critiche alle attività israeliane di colonizzazione e intimazione all’ANP di annullare i sussidi ai prigionieri politici palestinesi in carcere in Israele e alle loro famiglie, in accoglimento della posizione del governo Netanyahu che vedeva in questo sostegno ai detenuti una istigazione al terrorismo. La bozza di programma suggerisce inoltre di revocare l’etichettatura «Made in Israel», voluta da Trump a fine mandato, sui prodotti delle colonie ebraiche, costruite nella Cisgiordania palestinese, e destinati al mercato americano.

Cosa cambia rispetto al passato? Ben poco, visto che comunque non è un progetto destinato a portare alla creazione definitiva di uno stato palestinese. Semmai è da considerare un invito a che ANP e Israele tornino a sedersi al tavolo delle trattative. Di certo meglio di niente, ammesso che le autorità israeliane siano disposte a considerare una soluzione diversa.

Biden si mostra estremamente previdente, almeno questo bisogna riconoscerlo: una saggia mossa, quella di cercare di prevedere la più grande delle incognite: gli eventi. L’obietivo, d’altra parte, lo ha chiarito lo stesso Biden nel corso della campagna elettorale: “Sono da sempre sostenitore di una nazione ebraica sicura e democratica, ma la mia amministrazione lavora, al contempo, esortando entrambi i fronti a compiere passi nella prospettiva di una soluzione a due Stati. Ogni decisione unilaterale presa in questo senso, finirebbe per rendere meno probabile un accordo, e per questo andrebbe respinta, compresi eventuali piani di annessione”. Nonostante l’iniziativa di Biden, in ogni caso, l’esperienza passata non suggerisce un quadro molto roseo della situazione e al momento non vi sono basi reali per pensare che possa migliorare.

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