Lorenzo Utile - Tre mesi e altrettante fasi, con l’aggiunta di oltre 27mila morti, di cui più di 8000 bambini, e oltre 60mila feriti. La guerra lunga fra Hamas e Israele ha nuovamente compiuto una svolta.
Dopo quello dei bombardamenti a tappeto cominciati subito dopo l’attacco di Hamas il 7 ottobre, è arrivata la fase delle incursioni mirate, dentro e soprattutto fuori dalla Striscia, con annessa riduzione e riorganizzazione delle truppe sul terreno. Il ritiro di cinque brigate dal nord dell’enclave è quasi completato mentre i riservisti torneranno a casa secondo un calendario di turnazione. Contrariamente a quanto potrebbe apparire, però, l’aggiornamento in corso sembra confermare l’inquietante previsione fatta dal premier Benjamin Netanyahu la settimana scorsa: “Il conflitto durerà molti mesi”.
Il teatro degli scontri potrebbe spostarsi a nord, ovvero lungo il confine con il Libano dove, non a caso, stanno venendo ricollocate le truppe in uscita da Gaza. Dal 7 ottobre, la tensione tra le forze armate israeliane (Tsahal) e Hezbollah è stata costante, per quanto contenuta. L’omicidio a Beirut del numero due di Hamas, Saleh al-Arouri, rischia di far saltare il fragile equilibrio. Da giorni il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, minaccia conseguenze. Hezbollah ha lanciato razzi verso la regione di Meron, mentre nelle ore precedenti, la IDF aveva attaccato un centro di comando della formazione nel villaggio di Blida. Il pericolo è concreto. Da qui gli appelli della diplomazia internazionale, Unione Europea in testa con l’alto rappresentante, Josep Borrell, in viaggio in Libano, che ha rivolto un appello a evitare l’escalation. Per ora, però, il copione sembra limitarsi ad azioni a effetto ma contenute.
Non così Gaza dove, la rimodulazione delle truppe nel nord, si riaccompagna a una massiccia campagna aerea nell’area meridionale dove, secondo l’intelligence israeliana, sarebbero fuggiti i vertici di Hamas. Là, però, sono sfollati anche quasi tutti i 2,3 milioni di abitanti.
Quasi due milioni di persone ammassate in uno spazio limitatissimo. Non sorprende, dunque, l’elevatissima perdita di vite umane. Il bilancio di vittime ha raggiunto l’assurda quota di 22.700, altre 162 nelle ultime 24 ore. È vero che a fornire i dati è il locale ministero della Sanità, controllato da Hamas e che queste non distinguono tra combattenti e non.
Le cifre sui civili morti, però, sono considerate attendibili dalle principali organizzazioni internazionali. Il livello di distruzione - in base all’analisi delle immagini satellitari - ha superato quello dei recenti conflitti, dalla battaglia di Aleppo all’assedio di Mariupol.
Se Gaza paga il prezzo più alto, l’impatto della “guerra lunga” è forte anche su Israele. In questo scenario, quanti possono essere in concreto i molti mesi evocati da Netanyahu? Il punto è che Israele non sa come uscire dal conflitto. Perciò va avanti, come sottolinea Yonatan Mendel, esperto di studi mediorientali dell’Università Ben-Gurion e tra i più accreditati studiosi di Gaza.
L’obiettivo per cui è stata scatenata l’offensiva (l’eliminazione di Hamas) non può essere raggiunto per via militare. Il gruppo islamista è un’idea, non solo un movimento. E, paradossalmente, la guerra l’ha fatta espandere. È il caso della Cisgiordania. Secondo il Palestinian Centre for Policy and Survey Research, nei Territori, il sostegno alla formazione ha raggiunto quota 70 per cento, più come alternativa all’inerzia dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), in realtà, che per adesione ideologica. Palestina e Israele condividono un analogo problema di leadership. Gli abitanti della Cisgiordania non si sentono rappresentati da Abu Mazen. E nello Stato ebraico, Netayahu, era screditato prima del 7 ottobre. L’offensiva gli ha consentito di “congelare” la questione. Per questo ha necessità di prorogarla quanto più possibile. Il momento è cruciale.
Il 7 ottobre ha mostrato in modo plateale il pericolo della sistematica elusione da parte della politica del conflitto israelo-palestinese. Una guerra cominciata decenni prima del 7 ottobre, da cui questo deriva. E che l’operazione militare su Gaza non può risolvere. Decine di migliaia di morti dopo, siamo allo stesso punto di tre mesi fa. È deprimente. La sola speranza, ora, viene dalla pressione della comunità internazionale perché sia affrontata la questione palestinese». Proprio in questi giorni è in corso la quinta missione del segretario di Stato Usa, Antony Blinken, in Medio Oriente dall’inizio della crisi. Ieri, il capo della diplomazia di Washington ha incontrato il presidente turco, Receep Tayyip Erdogan, a Istanbul e il ministro degli Esteri, Hakan Fidan, ha insistito per una tregua immediata. Dopo la tappa in Grecia, domani Blinken tornerà a Israele. Alla vigilia del tour, il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, gli ha inviato un video-messaggio per chiedergli di «fermare l’aggressione contro i palestinesi». In realtà, al di là delle strumentalizzazioni del gruppo armato, la Casa Bianca mostra un fastidio crescente per il prolungarsi delle ostilità. Finora, però, Netanyahu è stato irremovibile. “La guerra - è il suo ritornello - andrà avanti ancora molti mesi”.
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