Assadakah Baghdad - I risultati parziali delle elezioni legislative in Iraq sanciscono il consolidamento delle elite populiste al potere da più di un decennio. E sembrano rassicurare sia gli Stati Uniti che l’Iran sul fatto che gli equilibri istituzionali nel Paese non saranno stravolti. Su tutto emerge la scarsissima affluenza alle urne, che conferma quanto profondo si sia fatto in questi anni il fossato tra la cittadinanza, afflitta dagli effetti di una crisi socio-economica senza fine, e i potenti partiti politici emersi nell’era post-Saddam Hussein.
Le elezioni, previste per la primavera dell’anno prossimo, erano state anticipate dalla classe politica: ufficialmente per andare incontro alle richieste del movimento di protesta popolare che dall’ottobre del 2019 aveva preso le strade in maniera massiccia e periodica a Baghdad e nelle città del sud sciita.
In realtà, affermano gli analisti, le élite al potere hanno anticipato le consultazioni per evitare che il dissenso anti-sistema potesse crescere ulteriormente e che il fronte riformista potesse organizzarsi e capitalizzare il consenso alle elezioni. Le urne hanno infatti sancito la vittoria di chi è già al potere: il leader radicale sciita Moqtada Sadr, che a parole si oppone a ogni interferenza straniera ma che nei fatti dimostra un elevato pragmatismo.
Stando ai risultati ancora non definitivi, il blocco sadrista - che ha la sua roccaforte nelle favelas a est di Baghdad - ha ottenuto circa 70 su 329 seggi totali, portando in parlamento quasi più di 20 deputati rispetto alle elezioni del 2018. Da anni i sadristi sono una delle maggiori forze politiche irachene. Il loro leader si vanta di non aver mai lasciato il Paese, nemmeno negli anni bui della repressione di Saddam Hussein. Le sue milizie avevano combattuto aspramente l’occupazione americana dopo il 2003. Ma lo stesso Sadr - figlio di un’illustre famiglia legata allo sciismo politico in Iran e in Libano - ha da tempo annunciato il disarmo del suo partito.
Dal canto loro, i partiti armati filo-iraniani, presenti in larga parte nelle regioni meridionali del Paese ricche di petrolio e teatro della violenta repressione delle proteste anti-governative del 2019 e del 2020, hanno visto ridimensionare la loro presenza in parlamento. E ora denunciano “brogli” e chiedono che le schede vengano ricontate in gran parte dei distretti. La seconda forza in parlamento appare quella del partito dell’ex premier Nuri al Maliki, vicino a Teheran. Sembra aver ottenuto un risultato rassicurante anche la coalizione guidata dal presidente del parlamento Muhammad Halbusi, sunnita e da tempo cooptato dalle elite sciite.
Nel nord e nord-est i partiti curdi tradizionali capeggiati dai clan Barzani e Talabani, rispettivamente vicini a Turchia e Iran, hanno confermato la loro supremazia. Ma hanno ceduto seggi ad altri partiti emergenti, comunque alleati dell’establishment al potere. L’affluenza alle urne ha segnato il record negativo di tutta l’era post-Saddam: 41% (nel 2018 era stata del 44%). In alcuni distretti soltanto il 20% degli aventi diritto si è recato ai seggi.
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