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Iran e USA - dialoghi sotto traccia in Oman

Aggiornamento: 2 giorni fa



Maddalena Celano (Assadakah News) - Dialoghi sotto traccia: i colloqui Iran-USA in Oman e la possibilità di una nuova distensione


In un periodo storico segnato da escalation militari, crisi energetiche e fratture geopolitiche, i colloqui – seppur informali e indiretti – tra Stati Uniti e Iran rappresentano un timido ma significativo segnale di apertura. Gli incontri si sarebbero tenuti ieri in Oman, un Paese dalla lunga tradizione diplomatica neutrale, noto per il suo ruolo di mediatore silenzioso ma efficace in molte crisi regionali, incluse le trattative sul nucleare iraniano negli anni passati.


Contesto: la tensione permanente tra Washington e Teheran


I rapporti tra i due Paesi sono tesi da decenni, con momenti di particolare criticità:

  • L'uscita unilaterale degli USA dal JCPOA (l'accordo sul nucleare iraniano del 2015) nel 2018, sotto la presidenza Trump, ha alimentato una spirale di sfiducia e tensione.

  • Sanzioni economiche pesantissime hanno colpito l’economia iraniana, rafforzando al contempo la narrativa antiamericana a Teheran.

  • Le tensioni sono aumentate ulteriormente dopo l’assassinio del generale Qassem Soleimani nel 2020.

  • In parallelo, i conflitti in Siria, Yemen e Gaza hanno visto le due potenze schierate su fronti opposti.


Perché ora? Le ragioni dietro il ritorno al tavolo


I motivi che hanno spinto le due parti a riprendere contatti (per ora informali) sono molteplici:

  1. Rischio di escalation diretta: La guerra tra Israele e Hamas, l’instabilità in Libano e gli attacchi Houthi nel Mar Rosso rischiano di trasformare le tensioni in un conflitto aperto tra Iran e alleati degli USA.

  2. Preoccupazioni energetiche globali: L’instabilità regionale ha un impatto diretto sul mercato del petrolio, rendendo necessario un dialogo anche tra avversari storici.

  3. Strategia diplomatica di Biden: L’amministrazione USA, pur non cercando un ritorno immediato al JCPOA, ha interesse a contenere le ambizioni nucleari iraniane e a prevenire un conflitto regionale su larga scala.

  4. Sforzo iraniano per rompere l’isolamento: Teheran, sotto pressione economica e sociale, cerca spazi di manovra per alleviare le sanzioni e migliorare le sue relazioni internazionali.





Il ruolo dell’Oman: il mediatore silenzioso

L’Oman ha giocato un ruolo importante anche nei negoziati che portarono al JCPOA nel 2015. La sua neutralità storica, la discrezione diplomatica e i buoni rapporti con entrambe le parti lo rendono un canale ideale per colloqui riservati. L’incontro recente sarebbe avvenuto in forma di scambio di proposte attraverso intermediari, con l’obiettivo di evitare ulteriori frizioni in Medio Oriente.


Prospettive e limiti

Anche se non si parla ancora di trattative ufficiali o accordi imminenti, il solo fatto che le parti si parlino – anche solo per evitare il peggio – è indicativo di una volontà di contenimento.

Tuttavia, persistono numerosi ostacoli:

  • Il programma nucleare iraniano è ormai molto più avanzato di quanto non lo fosse nel 2015.

  • La pressione dell’opinione pubblica in entrambi i Paesi limita i margini di compromesso.

  • Le dinamiche regionali, in particolare il ruolo di Israele e Arabia Saudita, complicano ulteriormente un'eventuale normalizzazione.





Un segnale fragile ma importante

I colloqui di Oman non rappresentano una svolta, ma un tentativo di prevenire l'abisso. In un mondo in cui i canali diplomatici sembrano progressivamente chiudersi, ogni spiraglio di dialogo va colto con attenzione e incoraggiato.

L’Iran e gli Stati Uniti sono stati protagonisti, per decenni, di un pericoloso gioco di specchi. Da una parte, l’amministrazione statunitense – oscillante tra politiche interventiste e strategie ambigue – ha alimentato una narrativa demonizzante nei confronti della Repubblica Islamica; dall’altra, Teheran ha fatto del confronto con “l’Impero” un pilastro della propria identità rivoluzionaria.

In mezzo, milioni di civili, vittime di sanzioni, guerre per procura, e una tensione permanente che ha impedito il pieno sviluppo economico e sociale di una delle aree più ricche di cultura e risorse del mondo. Per oltre quattro decenni, Iran e Stati Uniti hanno danzato attorno a un conflitto che raramente è esploso in guerra aperta, ma che ha mantenuto il Medio Oriente in uno stato di tensione cronica. Un conflitto non solo geopolitico, ma profondamente simbolico, in cui entrambi gli attori hanno costruito l’immagine dell’altro come “nemico esistenziale”.


L’Impero del caos e la Repubblica degli Ayatollah: narrazioni a confronto


Da un lato, l’amministrazione statunitense ha alternato fasi di dura ostilità (come sotto Reagan, Bush figlio e Trump) a tentativi di dialogo pragmatico (Obama e parzialmente Biden). Tuttavia, anche nei momenti di apertura, Washington ha mantenuto una linea ambivalente, continuando a sostenere alleati regionali ostili all’Iran – come Israele e Arabia Saudita – e imponendo sanzioni asfissianti alla popolazione iraniana, spesso sotto il pretesto della sicurezza nucleare o della lotta al “terrorismo”.

Questa politica ha contribuito a consolidare una narrativa egemonica che dipinge l’Iran come stato-canaglia, promotore del fondamentalismo e destabilizzatore della regione. Una narrazione utile anche per giustificare la presenza militare permanente degli USA in Medio Oriente.

Dall’altra parte, la Repubblica Islamica ha costruito la propria legittimità rivoluzionaria anche sulla contrapposizione all’Impero statunitense, simbolo di decadenza, colonialismo e arroganza occidentale. L’“antiamericanismo” non è solo una posizione diplomatica, ma un elemento costitutivo del discorso ideologico iraniano, radicato nella memoria storica del colpo di stato del 1953 contro Mossadeq, nel sostegno americano allo scià Reza Pahlavi e nella lunga storia di umiliazioni percepite.

L’Iran ha quindi alimentato una politica estera di resistenza, rafforzando così la sua posizione come potenza regionale alternativa agli assetti Occidentali.





Le vittime silenziose: la società civile intrappolata tra propaganda e sanzioni


In mezzo a questo scontro di potenze, restano milioni di civili: donne e uomini, giovani e lavoratori, artisti, dissidenti, studenti, piccoli imprenditori. Sia negli Stati Uniti che in Iran – ma soprattutto in quest’ultimo – le conseguenze sono state devastanti:

  • Le sanzioni economiche hanno colpito la sanità, l’educazione, l’accesso a tecnologie e beni essenziali, aggravando le disuguaglianze e soffocando le spinte riformiste interne.

  • Le guerre per procura, come in Siria e Yemen, hanno trasformato interi Paesi in scenari di sperimentazione geopolitica, con costi umani incalcolabili.



Un Medio Oriente sequestrato dalla geopolitica

L’intera regione mediorientale è rimasta ostaggio di logiche di potenza, anziché essere valorizzata per ciò che è: una culla di civiltà, ricca di diversità culturale, potenziale economico e risorse naturali. Ma questo potenziale è stato sistematicamente sabotato da interventi militari, rivalità ideologiche e interessi estranei alla volontà dei popoli.

Oggi, mentre il mondo affronta crisi globali come il cambiamento climatico, le disuguaglianze crescenti e l’instabilità energetica, la riconfigurazione delle relazioni internazionali – anche quelle tra Iran e Stati Uniti – non è solo auspicabile, ma necessaria.


Verso un nuovo paradigma?


I recenti colloqui informali in Oman – pur nella loro fragilità – potrebbero rappresentare l’inizio di una nuova fase di realismo pragmatico, in cui il dialogo prende il posto dello scontro ideologico. Ma perché questo accada, occorre superare le retoriche binarie e restituire centralità alle voci della società civile, ai desideri di autodeterminazione, giustizia sociale e sviluppo umano che attraversano le strade di Teheran come quelle di Baghdad, Beirut, Sanaa e Gaza.

Secondo fonti ufficiali e giornalistiche, i colloqui indiretti tenutisi nel 2024 in Oman hanno avuto come oggetto principale il programma nucleare iraniano, ma non solo. I due Paesi hanno discusso anche delle crisi regionali, come l’instabilità in Iraq, Siria, Yemen e del ruolo degli Houthi nel Mar Rosso. Si tratta, a detta della missione iraniana all’ONU, di “un processo in corso” che, pur senza risultati clamorosi, lascia intravedere la volontà di abbassare i toni.

Non si tratta di un ritorno al JCPOA (l'accordo sul nucleare firmato nel 2015 e poi affossato da Trump), ma di un tentativo embrionale di rianimare il dialogo in una fase storica in cui le diplomazie tradizionali sembrano sempre più soppiantate dalle minacce e dai droni.

Dovremmo accogliere con favore ogni segnale di distensione, ogni gesto che sfugge alla logica della guerra permanente. La diplomazia, per essere efficace, ha bisogno di coraggio, pazienza e silenzio. Gli incontri in Oman rappresentano un ritorno a questa grammatica dimenticata.

Il popolo iraniano, duramente colpito dalle sanzioni economiche, ha diritto a respirare. La società civile statunitense, stanca di conflitti esterni, ha bisogno di sapere che la pace è ancora una possibilità concreta. La regione medio-orientale, devastata da decenni di interferenze, ha bisogno di soluzioni politiche inclusive, non di bombe "intelligenti".



Costruire un futuro comune



Il dialogo tra Iran e Stati Uniti è molto più che un confronto bilaterale. È la cartina al tornasole di una possibile nuova architettura multipolare, in cui le potenze si parlano invece di minacciarsi, in cui le differenze ideologiche non annullano la possibilità di cooperazione.

La sinistra internazionale dovrebbe vigilare e sostenere ogni tentativo di disarmo, mediazione e giustizia. Perché se il mondo è sull’orlo del baratro, solo il dialogo potrà salvarci. E i colloqui di Muscat, città della pace silenziosa, potrebbero essere un primo passo in quella direzione.



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