La storia della guerra attraverso i documenti top secret” è l’ultimo libro del giornalista del Washington Post Craig Whitlock.
Il libro si presenta come “un racconto esatto e serrato su come tre presidenti degli Stati Uniti e i loro capi militari abbiano ingannato il mondo per venti lunghi anni per giustificare un conflitto infinito costato oltre 2300 miliardi di dollari e 241.000 morti”. Proprio come i Pentagon Papers hanno cambiato la comprensione del pubblico del Vietnam, gli Afghanistan Papers riportati nel libro contengono rivelazioni sorprendenti di persone che hanno avuto un ruolo diretto nella guerra, dai leader della Casa Bianca e del Pentagono ai soldati e agli operatori umanitari in prima linea.
Il resoconto si basa su interviste con più di 1000 persone che sapevano che il governo degli Stati Uniti stava presentando una versione distorta, e talvolta interamente inventata dei fatti. Craig Whitlock, reporter del Washington Post e tre volte finalista al Premio Pulitzer, mostra che il presidente Bush non conosceva il nome del suo comandante in Afghanistan e non aveva alcun interesse a incontrarlo. Il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld ha ammesso di non avere “nessuna idea su chi fossero i cattivi”. Il suo successore, Robert Gates, ha dichiarato, ancora più esplicitamente: “Non sapevamo nulla di al-Qaeda”.
Nel dicembre 2001, gli Stati Uniti hanno sprecato due opportunità d’oro che avrebbero potuto fare concludere la guerra in modo rapido e positivo. All’inizio del mese, un numero elevato di rapporti dell’intelligence avvertiva che il nemico pubblico numero uno, bin Laden, si era rifugiato con circa 500-2.000 combattenti di al-Qaeda in un grande complesso di tunnel fortificati e caverne a Tora Bora, a circa cinquanta chilometri a sud-est di Jalalabad.
Il distretto montuoso vicino al confine pakistano era un nascondiglio piuttosto ovvio per il leader di al-Qaeda. Bin Laden aveva finanziato la costruzione delle strade e dei bunker di Tora Bora durante i conflitti degli anni ’80 contro i sovietici e aveva trascorso del tempo lì dopo il suo ritorno in Afghanistan nel 1996.
Il 3 dicembre, il generale dell’esercito Tommy Franks, a capo del Comando centrale degli Stati Uniti, ordinò di bombardare i combattenti di al-Qaeda a Tora Bora ventiquattr’ore su ventiquattro per due settimane. Un piccolo gruppo composto da circa un centinaio di soldati statunitensi e agenti della CIA guidò gli attacchi aerei da terra e reclutò due signori della guerra afghani, affinché braccassero con le loro milizie le forze di al-Qaeda.
I mercenari afghani si dimostrarono inaffidabili e riluttanti a combattere e le bombe non riuscirono a centrare l’obiettivo più desiderato. Temendo che bin Laden potesse fuggire oltre il confine incustodito con il Pakistan, i comandanti della CIA e della Delta Force dell’esercito supplicarono il Comando centrale d’inviare rinforzi.
Convinto che fosse meglio avere pochi uomini sul campo, Franks rifiutò. “Vi domanderete come mai non l’ho fatto. Riflettete sul contesto politico in America all’epoca. Che disponibilità c’era a inviare […] altri 15.000 o 20.000 americani in Afghanistan? Per quale motivo avremmo dovuto farlo?”, si è domandato in un’intervista all’Università della Virginia. Eppure nessuno pretendeva così tanti uomini. I comandanti della CIA e della Delta Force hanno detto che speravano di ottenere un rinforzo di 800-2.000 uomini, tra ranger dell’esercito, Marines e altri soldati. A ogni modo, non ricevettero alcun aiuto e bin Laden e i leali superstiti di al-Qaeda riuscirono a fuggire.
All’apice dei combattimenti di Tora Bora, il maggiore dell’esercito William Rodebaugh, il responsabile della logistica della decima divisione di montagna, si trovava a circa centosessanta chilometri dalla base aerea di Bagram a monitorare il traffico radio della battaglia. L’11 dicembre sentì uno scambio su un importante sviluppo, un avvistamento di bin Laden, e si sorprese che la sua unità non venisse inviata sul posto.
“Eravamo pronti se ce lo avessero chiesto”, ha spiegato in un’intervista all’esercito. “Mi chiedo cosa sarebbe successo se lo avessero trovato quella notte o se avessero ordinato al nostro battaglione di accorrere in aiuto, cosa che purtroppo non è accaduta”.
Naturalmente, non c’è alcuna garanzia che un maggior numero di soldati in campo avrebbe portato alla morte o alla cattura di bin Laden a Tora Bora. L’altitudine e il terreno rendevano difficili le manovre e un assalto di terra su vasta scala poneva molti rischi. È tuttavia indubbio che la sua fuga abbia prolungato la guerra in Afghanistan. A livello politico, era impossibile per gli Stati Uniti disporre il rientro delle truppe finché la mente degli attacchi dell’11 settembre era a piede libero.
Accusati pubblicamente di avere sprecato l’occasione perfetta per catturare bin Laden, Franks e Rumsfeld misero in dubbio che il leader di al-Qaeda fosse per davvero a Tora Bora nel dicembre del 2001, malgrado il Comando delle forze speciali degli Stati Uniti, la CIA e la Commissione per le relazioni estere del Senato abbiano successivamente confermato l’esatto contrario.
La questione si trasformò poi in vulnerabilità nel 2004, durante la campagna di rielezione di Bush, e Franks dovette scrivere un editoriale sul New York Times dichiarando: “il signor bin Laden non è mai stato alla nostra portata”. Otto giorni dopo, con la benedizione di Rumsfeld, il Pentagono se ne uscì fuori con un dubbio elenco di argomentazioni, sostenendo: “l’accusa che l’esercito degli Stati Uniti abbia permesso a Osama bin Laden di fuggire da Tora Bora nel dicembre 2001 è assolutamente falsa ed è stata smentita dai comandanti dell’operazione”.
Anni dopo, nella sua intervista di storia orale, Franks ha continuato a rifiutarsi di ammettere che bin Laden fosse a Tora Bora. “Esattamente nello stesso giorno in cui mi è stato detto per la prima volta ‘Tora Bora è la nostra occasione, Franks. È a Tora Bora’, ho ricevuto un rapporto dell’intelligence che m’informava che bin Laden era stato avvistato il giorno precedente in un lago a nord-ovest di Kandahar e anche che era stato identificato, senza ombra di dubbio, da qualche parte nelle regioni autonome del Pakistan occidentale”, ha dichiarato.
Successivamente alla battaglia di Tora Bora, gli Stati Uniti avrebbero impiegato un decennio prima di riuscire di nuovo a individuare la posizione di bin Laden. A quel punto, i soldati statunitensi in Afghanistan erano 100.000, un numero quaranta volte più alto rispetto a dicembre 2001. Sempre all’inizio, gli Stati Uniti si sono lasciati sfuggire l’occasione di porre fine alla guerra con la diplomazia. Mentre bin Laden si nascondeva tra le montagne di Tora Bora, un eterogeneo gruppetto di mediatori afghani si riuniva a Bonn, in Germania, per discutere del futuro del loro Paese insieme a diplomatici degli Stati Uniti, dell’Asia centrale e dell’Europa. L’incontro fu organizzato dalle Nazioni Unite ed ebbe luogo al Petersberg, un hotel e centro congressi di proprietà del governo tedesco arroccato su una collina boscosa che domina il fiume Reno.
Nel dopo guerra, il Petersberg era stato il quartier generale dell’Alta commissione alleata e aveva ospitato numerosi summit, compresi i colloqui del 1999 per porre fine alla guerra in Kosovo. Le Nazioni Unite avevano invitato gli afghani a Bonn al fine di concludere con loro un accordo provvisorio di condivisione del potere. Lo scopo era quello di porre fine alla lunga guerra civile in Afghanistan, facendo sedere allo stesso tavolo tutti i potenziali piantagrane, interni ed esterni.
Erano presenti due dozzine di delegati di quattro diverse fazioni afghane, un mix di signori della guerra, espatriati, monarchici ed ex comunisti, tutti accompagnati dai loro collaboratori e seguaci. C’erano anche dei funzionari dell’Iran, del Pakistan, della Russia, dell’India e di altri Paesi interessati.
Dal momento che la conferenza venne organizzata durante il ramadan, il mese sacro per l’Islam, la maggior parte dei delegati digiunò durante il giorno, negoziando fino a tarda notte. La direzione dell’hotel si premurò di rimuovere la carne di maiale dal menu, lasciando l’alcol disponibile su richiesta.
Il 5 dicembre, i delegati raggiunsero un accordo che venne salutato come un trionfo diplomatico. Hamid Karzai era stato nominato leader ad interim dell’Afghanistan, sarebbe stata redatta una nuova costituzione e sarebbero state indette delle elezioni a livello nazionale. Ma l’accordo di Bonn aveva una pecca fatale del tutto trascurata all’epoca: aveva escluso i talebani. In quel momento, la maggior parte delle autorità statunitensi era convinto che i talebani fossero un nemico sconfitto, un errore di valutazione di cui si sarebbero pentiti amaramente. Alcuni leader talebani erano disposti ad arrendersi e a partecipare alle discussioni sul futuro dell’Afghanistan, ma l’amministrazione Bush e i signori della guerra dell’Alleanza del Nord si rifiutarono di negoziare, etichettando i talebani come dei terroristi che meritavano di morire o finire in prigione.
“Abbiamo commesso un errore enorme a trattare i talebani alla stregua di al-Qaeda”, ha ammesso in un colloquio per il Lessons Learned Barnett Rubin, un accademico americano esperto di Afghanistan ed ex consigliere delle Nazioni Unite durante la conferenza di Bonn. “I principali leader talebani erano disposti a dare una possibilità al nuovo sistema. Siamo noi a non avere dato a loro una possibilità”.
I talebani erano facili da demonizzare per via della loro brutalità e del loro fanatismo religioso, eppure si erano dimostrati troppo forti e ben radicati nella società afghana per essere annientati. Il movimento nato a Kandahar nel 1994 per ripristinare l’ordine in Afghanistan ed emarginare gli odiati signori della guerra, che avevano fatto a pezzi il Paese per preservare il loro potere e i loro feudi, aveva ottenuto il sostegno soprattutto dei pashtun.
“Tutti volevano che i talebani sparissero”, ha dichiarato Rubin in un secondo colloquio per il Lessons Learned. “Non c’era alcun interesse per la cosiddetta riduzione della minaccia, per la diplomazia regionale e per l’inclusione dei talebani nel processo di pace”.
Per Todd Greentree, un funzionario del corpo diplomatico che ha trascorso anni in Afghanistan, questo è stato l’ennesimo esempio dell’ignoranza degli Stati Uniti. “Uno degli sfortunati errori commessi dopo l’11 settembre consiste nel fatto che, nella nostra smania di vendetta, abbiamo violato il modo afghano di condurre la guerra. Quando una parte vince, l’altra depone le armi e si riconcilia con il vincitore ed è proprio ciò che volevano fare i talebani”, ha spiegato in un’intervista all’associazione diplomatica. “L’insistenza nel braccarli come se fossero tutti dei criminali, piuttosto che dei meri avversari che avevano perso, è ciò che, più di ogni altra cosa, ha ingigantito la loro insurrezione”.
Lakhdar Brahimi, diplomatico algerino ed ex rappresentante delle Nazioni Unite durante la conferenza di Bonn, ha in seguito ammesso che escludere i talebani dai negoziati è stato un grave errore, “il peccato originale”.
James Dobbins, un diplomatico americano esperto che ha mediato i colloqui di Bonn insieme a Brahimi, ha riconosciuto, in un’intervista per il progetto Lessons Learned, che Washington non si era resa conto della gravità dell’errore. “Penso che abbiamo sprecato un’opportunità nei mesi successivi, quando un certo numero di leader talebani e figure influenti si è arreso o si è reso disposto alla resa, compreso lo stesso mullah Omar, stando a un resoconto”, ha riferito Dobbins. Ha poi aggiunto di essere tra coloro che erroneamente presumevano che i talebani “fossero stati pesantemente screditati e che un loro ritorno fosse improbabile”. Una simile opportunità di riconciliazione non si sarebbe ripresentata per anni. Ci sarebbe voluto più di un decennio di guerra in stallo prima che gli Stati Uniti e i talebani accettassero finalmente di dialogare faccia a faccia.
Per l’uomo che avrebbe guidato quei negoziati, l’afghano-americano Zalmay Khalilzad, nato a Mazar-e-Sharif e cresciuto a Kabul prima di trasferirsi negli Stati Uniti da adolescente, il cerchio si era chiuso. Sotto Bush e durante la conferenza di Bonn, era membro del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca e, successivamente, dal 2003 al 2005, è stato ambasciatore degli Stati Uniti in Afghanistan. Tredici anni dopo, l’amministrazione Trump lo ha richiamato in servizio, nominandolo mediatore speciale nei colloqui con i talebani. Avrebbe trascorso più tempo in presenza dei talebani di qualsiasi altro funzionario degli Stati Uniti.
In un’intervista per il Lessons Learned, Khalilzad ha sostenuto che la guerra più lunga della storia americana avrebbe potuto essere una delle più brevi, se solo gli Stati Uniti fossero stati disposti a parlare con i talebani nel dicembre 2001. “Forse non siamo stati abbastanza svegli o saggi da includere i talebani fin dall’inizio, perché pensavamo che fossero stati sconfitti e che dovessero essere consegnati alla giustizia, piuttosto che fatti accomodare intorno a un tavolo per una qualche riconciliazione”, ha dichiarato.
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