Roberto Roggero - Mentre l’agenzia ufficiale di stampa iraniana Irna diffonde la notizia dell’esecuzione di un presunto agente del Mossad, nella provincia sud-orientale del Sistan-Balucistan, la guerra fra Hamas e Israele giunge al 71° giorno. Oltre 18mila morti, più di 7000 bambini, decine di migliaia i feriti, indelebili i segni emozionali.
Israele ammette la morte di tre ostaggi uccisi per un tragico errore a Gaza, e nel frattempo si moltiplicano le proteste a Tel Aviv contro l’uccisione da fuoco amico.
Il capo del Mossad, David Barnea, dovrebbe incontrare il primo ministro del Qatar Mohammed bin Abdulrahman Al Thani in Europa, questo fine settimana, per discutere la ripresa dei negoziati per un accordo che garantisca il rilascio degli ostaggi. Intanto, al Consiglio Europeo non si raggiunge un accordo in merito.
Proseguono i raid israeliani: colpito Al-Shabura, a Rafah, campo profughi palestinese nel sud della Striscia di Gaza, distruggendo due edifici residenziali e uccidendo almeno 13 persone.
Sullo sfondo, l’organizzazione di Hamas fa trasparire due opinioni sul campo: guerra a oltranza oppure “Hudna”, compromesso politico ma da una posizione vantaggio (il che farebbe comunque pensare che in ogni caso non rinuncia alla resistenza).
Fin dalla nascita, nel dicembre 1987, durante la prima Intifada in Cisgiordania e Gaza, i leaders di Hamas si sono destreggiati fra appelli alla militanza più attiva e la possibilità di negoziare un accordo con Israele.
Con la scelta della lotta armata, che non di rado ha compreso attentati con numerose vittime civili, di pari passo è stata messa in pratica la diffusione dei principi religiosi contro il sionismo, e l’esaltazione della sacra missione di liberare la terra di Palestina.
Hamas prendeva le distanze dai concorrenti nazionalisti laici dell’OLP di Yasser Arafat, Organizzazione per la Liberazione della Palestina, fondando Islam e militanza armata, nel puro stile dei Fratelli Musulmani, che com’è noto è un’organizzazione sostenuta e finanziata dai Paesi occidentali, Gran Bretagna in primis.
Nel periodo in cui nasceva l’eventualità di una trattativa e dell’accettazione di uno stato palestinese e uno israeliano, la spinta politica non era ancora sufficientemente forte, anche con l’aumento di consensi che Hamas ottenne nelle elezioni di Gaza del 2006, con il successivo riconoscimento del leader Khaled Mashaal. A livello concreto comunque fu concluso ben poco. Negli anni seguenti nulla di fatto nemmeno di fronte alle offerte israeliane di negoziati segreti da parte del laburista Yossi Beilin, sostenitore del dialogo e della pacificazione.
Fra i massimi quadri politici di Hamas, il 72enne Moussa Abu Marzouk, vicepresidente dell’ufficio politico, spinge per il riconoscimento dell’esistenza dello Stato di Israele in cambio del ritiro integrale di quest’ultimo dai territori occupati nella guerra del 1967, cioè non solo la Striscia di Gaza e l’intera Cisgiordania, ma tutta Gerusalemme Est. Ismail Haniyeh, capo dell’Ufficio Politico, ribadisce che non è possibile pensare a una Srriscia di Gaza senza Hamas, e che comunque la guerra potrebbe finire domani se Israele aprisse al negoziato.
Il motore politico di Hamas cerca di capitalizzare i successi, imponendo la questione palestinese sulla scena mondiale, mentre sembrava che gli Accordi di Abramo fra Israele e le Paesi del Golfo potessero normalizzare i rapporti, ma senza tenere conto della situazione dei territori occupati. Il contrasto interno fra Hamas e Fatah, organismo riconosciuto come Autorità Nazionale Palestinese presieduta da Mahmoud Abbas, è segnato dalla popolarità di Hamas in Cisgiordania.
Da non sottovalutare, lo scontro interno del movimento stesso, fra chi sta conducendo la resistenza a Gaza, e chi cerca di fare lo stesso ma dal Qatar. Non è dato sapere quali siano realmente i collegamenti fra queste due parti. In Israele ben pochi oggi considerano le offerte di dialogo che arrivano dal Qatar. L’opinione pubblica israeliana mostra comunque una preoccupante maggioranza che pensa sia giusto eliminare totalmente Hamas, nonostante sia un obiettivo realisticamente non realizzabile.
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