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Franco Battiato, pellegrino musicale ispirato dal sufismo

Patrizia Ricci - Un anno fa ci lasciava Franco Battiato, musicista tra i più influenti degli ultimi 50 anni in Italia, grazie al suo eclettismo è riuscito a farsi apprezzare e conquistare più generazioni per il grande numero di stili musicali che ha approfondito e combinato tra loro. Tutti conoscono i suoi innumerevoli capolavori, che vanno dalle sperimentazioni pop ed elettroniche ante litteram di Cuccurucucu Paloma, fino a scendere negli abissi delle profonde altezze spirituali di "E ti vengo a cercare" e di "Un irresistibile richiamo", dichiarazioni in musica d’amore e di fede. Non tutti sanno che la sua incessante ricerca spirituale fa capo alla corrente Sufi dell’Islam più ascetico; Franco Battiato nella musica pregava. Di lui ricordiamo un memorabile concerto a Baghdad, in cui in arabo cantò le sue canzoni e la sua ricerca di vita.

Ciò che avvicina molti artisti al sufismo è proprio il linguaggio che i Sufi usano, che è quello dell’arte e della poesia, per esprimere le proprie verità: “tutto l’universo obbedisce all’amore”.

Il contatto Sufi di Battiato, a Milano, fu Gabriele Mandel, di cui fu maestro Hamza Boubakeur. Lo stesso Mandel era un personaggio interessante: studiò con Matisse, D’Annunzio fu suo padrino. E tra le altre cose, Mandel fu anche maestro Sufi della confraternita Halveti Jerrahi, quella cui si unì Franco Battiato. Loro praticano la Khalwa, che è una sorta di breve eremitaggio, un ritrarsi dal mondo temporaneamente per poi ritornarci: lui stesso ha fatto questa scelta di ritrarsi in maniera radicale non solo per un motivo di salute ma anche per una volontà spirituale. Hamza definiva i Sufi come delle persone in una marcia risoluta, cioè persone che si contraddistinguono per il loro cammino, non per qualcosa di specifico in cui credono o per essere una categoria di persone superiori: ma perché agiscono in una certa maniera.

Circa l’origine dei sufi, si tratta di una corrente mistica nata quasi contestualmente al diffondersi dell’Islam: risale dunque al 600. La parola è di etimologia incerta: forse dall’arabo per “lana”, che ricorda i vestiti di lana grezza che questi mistici portavano, oppure dalla “suffa”, la panca nella Moschea di Maometto dove andavano a vivere questi eremiti, rinunciando al mondo. Oppure ancora richiama la radice semantica per indicare quei credenti che guidavano i pagani arabi. Ogni comunità sufi cala le pratiche nella sua cultura. La confraternita cui faceva riferimento Battiato era di origine turca: è il motivo per cui citava spesso i dervisci rotanti appartenenti all’Impero ottomano. Il rituale di qu danzatori è molto codificato, quindi non dobbiamo immaginarlo come una danza spontanea, o una danza che una persona presa dall’estasi si mette a fare. Era così inizialmente, ma poi la confraternita dei Mevlevi, che ha continuato questa pratica, l’ha codificata. Diventa più una riflessione sul ruotare del cosmo, una riflessione quasi astrale, un invito a sciogliersi nella pace e nell’armonia del cosmo. Ovviamente questo rituale della danza, che viene chiamato semà, è accompagnato da musica, da pause, da recitazione di versetti coranici, che hanno una specifica risonanza con queste cose. Alla fine della danza viene recitato un versetto del Corano che dice che a Dio appartengono oriente e occidente e dovunque vi volgiate, dunque, lì è il volto di Dio. Questo fa capire in che maniera queste cose vanno insieme: la danza, il girare, il cosmo, e la parte religiosa.

Legato a questa ricerca cosmica è anche il tema della luce, che torna spesso: dalla simbologia orientale, di marca zoroastriana, al fuoco e alla luce che tornano sempre nell’Islam.

L’idea dell’Islam è quella di aver convissuto con questo sentimento dell’uomo di meraviglia, di stupore di fronte alla natura, ma di essere sempre stato lì un passo prima. Cioè Dio era sempre pronto a rivelarsi nel momento in cui l’uomo fosse arrivato a quel passo, a quel dire “ecco la luce, la luce cosa mi dice”; e i sufi hanno valorizzato tantissimo questo elemento.

Ci sono tante pratiche sufi, un’infinità. In comune hanno questo fatto di utilizzare il linguaggio della poesia, dell’arte: ciò rende possibile a molte persone percepire qualcosa, un profumo della profondità spirituale di cui stanno parlando, che invece resta inaccessibile se si consulta solo un testo di spiritualità dell’Islam classico, che usa un altro linguaggio e ha molte premesse per poter essere fruito. Nel sufismo anche il linguaggio della musica è molto utilizzato, anche come musicoterapia in molte confraternite sufi, per guarire diversi mali dell’anima, della spiritualità: la musica è “la Cura”.

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