Assadakah - Una tregua per l’Etiopia è sempre più lontana. Il primo ministro Abiy Ahmed, Premio Nobel per la Pace, ha annunciato che va al fronte per combattere i ribelli e ha invitato i cittadini a resistere. Un appello raccolto pubblicamente da Haile Gebrselassie - leggenda dello sport, tra i più grandi mezzofondisti e maratoneti della storia - che ha dichiarato che “difenderà la sua terra madre dai nemici interni ed esterni” ed è pronto ad andare al fronte. Il vincitore di due ori olimpici ha accusato gli Stati Uniti e i suoi alleati di essersi intromessi negli affari interni dell’Etiopia intensificando la loro “indebita pressione” e ha descritto il presunto intervento occidentale nel conflitto come un “campanello d’allarme” per tutti per resistere al neocolonialismo. L’appello del premier è stato accolto anche da Feyisa Lilesa, altro maratoneta che dal podio di Rio 2016 denunciò i soprusi subiti dalla sua etnia Oromo per mano del Governo, allora sotto la guida del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè.
Sono passati cinque anni, i ruoli si sono invertiti ma il futuro dell’Etiopia potrebbe assomigliare al suo passato più recente. “È giunto il momento di guidare il Paese con sacrificio”, ha annunciato Abiy Ahmed sul suo profilo Twitter condividendo una lunga dichiarazione. Il vice primo ministro, Demeke Mekonnen Hassen, prenderà il suo posto per tutto il periodo della sua assenza e si occuperà dei compiti ordinari. L’annuncio del premier è stato diffuso mentre i ribelli del TPLF rivendicavano la conquista della cittadina di Shewa Robit, a soli duecentoventi chilometri dalla capitale Addis Abeba. Le parole di Abiy, però, possono essere lette in diverso modo. “Ha annunciato che andrà al fronte, ma in realtà non tutti ci credono”, spiega ad Huffpost Tiziana Corda, ricercatrice del Network for the Advancement of Social and Political Studies (NASP) dell’Università di Milano. “Bisogna vedere se e come ci andrà”, dato che “non parliamo di un soldato”.
Piuttosto l’appello sembrerebbe “un incentivo alle persone per andare a combattere”. Non a caso, il primo ministro etiope ha chiamato a raccolta “coloro che vogliono essere fra quei figli dell’Etiopia che saranno glorificati dalla Storia” per seguirlo al fronte. In molti sarebbero pronti a partire, ma il rischio è che si vada incontro a un massacro. “C’è una incomprensione alla base”, continua la dottoressa Corda. A mancare è una strategia, senza la quale i ribelli riescono a sfondare con più facilità rispetto ad altri fronti dove la situazione è sotto controllo. Come sul fronte orientale, dove le forze federali stanno rendendo difficile l’attraversamento dei confini regionali dell’Afar alle truppe del TDF e dell’OLA.
Ad aprirsi, però, non sono solamente le linee di difesa ma anche le fratture interne. Alcuni tra gli alleati del governo “accusano Abiy di non aver fatto abbastanza”. Sulla stessa lunghezza d’onda sembrerebbe essere il professor Kjetil Tronvoll, ricercatore di studi sulla pace e sui conflitti, con una particolare attenzione per i Paesi del Corno d’africa. Per lui, la mossa di Abiy assomiglia molto a “un segnale di disperazione, un azzardo. Nel senso: la gente lo seguirà? Ancora non lo sappiamo”.
La situazione è drammatica. L’ambasciata statunitense ha allertato della possibilità di attacchi terroristici e ha rafforzato il contingente militare a Gibuti, pronto a dare una mano se la situazione dovesse degenerare. L’avvertimento ai suoi concittadini è chiaro: “Non aspettate che la situazione peggiori per decidere di andarvene. Partite prima che le cose cambino”. Anche l’Onu è in procinto di evacuare le famiglie dello staff impegnato in Etiopia. Ma sono tutti i governi occidentali a essere preoccupati e a sollecitare la propria popolazione a lasciare il Paese “senza indugio”, come chiedono dalla Francia. Agli appelli di Stati Uniti e Gran Bretagna, infatti, si sono aggiunti quelli di Parigi, appunto, Berlino e Roma. “In ragione della fluidità della situazione e del possibile peggioramento”, si legge sul portale Viaggiare Sicuri della Farnesina, si “sconsiglia fortemente di recarsi in Etiopia”. A quelli già presenti, invece, si “suggerisce di utilizzare i voli commerciali disponibili per lasciare lo Stato”. Secondo le ricostruzioni locali, alla fuga starebbero partecipando anche molti cittadini turchi.
L’imprevedibilità degli eventi citata dal Ministero degli Esteri apre un’ulteriore analisi sulla situazione etiope. Se un anno fa il governo liquidava la ribellione dei tigrini come una semplice operazione di polizia, ora la posto in gioco è talmente alta che si è arrivati a parlare di “guerra esistenziale”. “Questo conflitto ci ha abituati a cambi di fronte improvvisi”, ricorda la ricercatrice del NASP. “Fino a giugno, il governo sembrava avere il controllo, poi l’offensiva del Tigray ha fatto pensare a una capitolazione. A ottobre”, continua, “Addis Abeba sembrava ormai persa” ma un’avanzata delle truppe federali aveva permesso al governo di riprendere terreno. Anche adesso, la velocità con cui i ribelli tigrini del TDF e dell’OLA hanno conquistato le città e si avvicinano alla capitale lascia immaginare un esito scontato della guerra che, quasi sicuramente, non arriverà attraverso una stretta di mano. “La trattativa diplomatica sta andando avanti ma, dopo la dichiarazione di Abiy di recarsi al fronte, salta un po’ tutto per aria”.
Jeffrey Feltman, l’inviato speciale degli Stati Uniti per il Corno d’Africa, una volta tornato a Washington ha confermato l’aumento delle operazioni militari. “Ci sono alcuni progressi nascenti nel tentativo di far passare le parti da uno scontro militare a un processo negoziale”, ha spiegato ai giornalisti. Tuttavia, la preoccupazione è d’obbligo, dato che “questo fragile progresso rischia di essere superato dagli allarmanti sviluppi sul campo che minacciano la stabilità e l’unità complessive dell’Etiopia”. Feltman ha provato in qualche modo a guardare con positività ai colloqui che gli Stati Uniti stanno intrattenendo con entrambe le parti. Il suo ottimismo, però, non sembrerebbe caratterizzare lo spirito dei diretti interessati. Soprattutto quello del governo, che ha incolpato i Paesi occidentali di favoreggiare i ribelli, sottolineando l’ingerenza negli affari interni da parte della comunità internazionale. Anche la stampa straniera è stata additata come serva degli “interessi delle forze nemiche”. Le opposizioni, invece, rimangono ferme nel chiedere la fine del blocco nella regione del Tigray, che sta portando alla fame milioni di persone, e le dimissioni di Abiy.
“Fino a quando entrambi i fronti crederanno di poter vincere, il canale diplomatico appare molto lontano”, afferma Testa. Per intavolare dei discorsi seri, bisognerà attendere che una delle due parti abbia la meglio sull’altra, qualora ciò accadesse. “Con la presa di queste ultime città sembrerebbe che i ribelli abbiano ripreso vigore, ma più si avvicinano alla capitale più lo scontro si fa duro. Si teme un massacro. Bisogna poi capire cosa faranno una volta arrivati ad Addis Abeba, se mai ci arriveranno. Al momento, nessuno accetta la controparte. Il progetto di un’Etiopia unita andrà così a svanire, perché la guerra civile ha portato a un odio insuperabile tra la popolazione degli amara e dei tigrini”.
La decisione del primo ministro Abiy, inoltre, stona ancora una volta con il premio Nobel per la Pace che gli è stato conferito solo due anni fa per il ruolo svolto nella pacificazione con l’Eritrea, i cui termini non sono mai stati resi pubblici. Il portavoce del TPLF Getachew Reda, ha denunciato sui social la deriva del primo ministro, la cui “imitazione degli imperatori etiopi in tempo di guerra ha assunto un tono schizofrenico fin troppo palpabile. Ha giurato di unire le sue forze sul campo di battaglia nell’onorevole tradizione dei suoi “gloriosi predecessori”. Dello stesso avviso anche l’ex diplomatico statunitense William Lawrence, che ci è andato duro contro Abiy, “un Premio Nobel per la pace che usa un linguaggio bellicoso per cercare di aumentare la posto in gioco prima della difesa non solo dell’Etiopia, ma della vita e della morte”. Perfino Awol Allo, il docente di diritto alla Keele University nel Regno Unito che lo ha nominato per il Premio, si è sorpreso dei toni - “intrinsechi di martirio e sacrificio” - utilizzati dal primo ministro etiope.
I dubbi riguardo la sua reale discesa sul campo di battaglia sono forti, dunque, e non si deve escludere la possibilità che dietro questa decisione ci sia dell’altro. “Potrebbe essere una mossa per scappare”, conferma la dottoressa Testa. D’altronde, “nessuno sa realmente dove sia e non essendo più rintracciabile dai media può scappare facilmente. È anche vero come molti analisti stiano monitorando la situazione e, sei mai dovessero notare l’aereo presidenziale in volo, la notizia si diffonderebbe”. Niente è escluso, quindi. Specialmente in una situazione in continuo mutamento. Quel che è certo è che “ci sarà un cambiamento”, come ha garantito il ministro della Difesa, Abraham Belay. “Quello che è successo e che sta accadendo alla nostra gente, gli abusi che vengono inflitti da questo gruppo di ladri e terroristi, non possono continuare”. Ma la mossa del primo ministro ha deciso di abbandonare le vesti istituzionali per indossare quelle militari allontana la soluzione diplomatica per dare voce alle armi, con gravi rischi di destabilizzazione per l’Etiopia e per l’area del Corno d’Africa.
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