Paola Sireci – Le sorti della guerra in Etiopia sembrano essere nelle mani dei droni, venduti al governo etiope da Turchia, Iran, Cina ed Emirati Arabi Uniti. Il conflitto, iniziato un anno e mezzo fa e che vede coinvolti il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè e il Partito della Prosperità, con a capo il Primo Ministro Abiy Ahmed, ha origine nel 2019 con culmine nel 2020 quando il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè ha indotto delle elezioni regionali non riconosciute da governo etiope, il quale ha disconosciuto i risultati delle elezioni non lasciando passare i giornalisti al fine di diffondere l’evento regionale.
A ribaltare, dunque, l’andamento del conflitto i droni venduti dagli stati mediorientali, ognuno per ragioni differenti: la Turchia per accrescere il reddito derivante dalle esportazioni di armi belliche, gli Emirati Arabi Uniti per mantenere saldi i rapporti con il Primo Ministro Abiy, altri Stati invece per testarne l’efficacia.
In Etiopia, infatti, i droni hanno permesso di intercettare e colpire numerosi obiettivi sia militari, sia civili, costringendo le forze armate a retrocedere di 435 chilometri e uccidendo oltre 300 persone. È comprovato che i droni sono un’arma di guerra decisiva per determinarne l’andamento, non a casa il settore è in forte crescita vista la grande richiesta da parte di molti governi. Non sempre, tuttavia, garantiscono la supremazia militare, come accaduto nella guerra del terrore tra Stati Uniti e Talebani nella quale questi ultimi sono riusciti a resistere per vent’anni nonostante i primi disponessero di grandi quantità di droni con cui hanno fronteggiato la guerra. Una cosa è certa: in questa fase del conflitto l’Etiopia, grazie al supporto dell’Eritrea e degli Stati mediorientali fornitori di armi belliche, ha in mano la vittoria, sia con arme fisiche, gli stupri, sia con armi belliche, i droni. Il Tigray si trova con le spalle al muro e non resta che arrendersi in attesa di aiuti umanitari che probabilmente mai arriveranno e che contrasterebbero la crisi umanitaria in atto in cui, a rimetterci, sono sempre i più deboli.
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