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Editoriale - USA: sfruttare la minaccia Isis per restare in Siria

Immagine del redattore: Roberto RoggeroRoberto Roggero

Roberto Roggero* - Lo scorso 19 dicembre, in un preordinato raid americano, annunciato dal CENTCOM (Comando Centrale Stati Uniti) nella provincia di Deir Ez-Zor (Siria orientale al confine con l'Iraq) è stato ucciso Abu Yousif, leader del sedicente Stato Islamico, meglio noto come Daesh o Isis, che per altro è una creatura voluta dagli stessi Stati Uniti. Una mossa estremamente calcolata che si inserisce in un più ampio quadro strategico per fare in modo che Washington non perda totalmente la propria influenza sia in Medio Oriente sia soprattutto in Siria, a fronte della minaccia turca e delle prossime incognite scelte che la nuova leadership di Damasco potrebbe operare a danno degli Stati Uniti.

Un ulteriore nuovo capitolo nella complessa guerra al terrorismo condotta da Washington, dopo la caduta di Bashar Al-Assad, per tenere comunque viva la minaccia dell’Isis e consolidarsi sul terreno, e per sminuire le capacità operative di un’organizzazione che, seppur indebolita, continua a rappresentare una minaccia. La crescente intensità delle operazioni militari americane in Siria riflette non solo l’impegno nel contrastare l’ISIS, ma anche il diverso contesto soprattutto politico.

La caduta di Bashar al-Assad, lo scorso 8 dicembre, ha riconfigurato la strategia regionale, cogliendo l’occasione di un vuoto di potere, rafforzando la presenza americana, e giustificando l’ordine di raddoppiare il numero di truppe nel Paese. I militari americano infatti, da 900 sono aumentati a oltre 2.000 in pochi giorni. L’obiettivo, per altro dichiarato, è quindi doppio: prevenire eventuali rinascite dell’Isis e, nel contempo, consolidare il controllo su un’area determinante negli equilibri mediorientali. Il contesto è poi notevolmente complicato dall’interferenza di altri interessi regionali e internazionali, Russia e la Turchia in primis, ognuno dei quali porta avanti il proprio programma.

La Turchia mantiene una certa ambiguità, avendo comunque un ruolo fondamentale. Il presidente Erdogan ha colto l’occasione per inasprire la lotta contro i curdi del PKK e le Unità di Protezione Popolare (YPG), e nonostante le YPG siano state fondamentali per gli Stati Uniti nella lotta contro l’Isis, il governo turco continua a vederle come minaccia esistenziale per la sicurezza nazionale, proprio come Israele considera Hamas e Hezbollah. Erdogan ha inoltre evidenziato l’importanza di un nuovo corso politico in Siria, che escluda la cooperazione con i gruppi da lui definiti “terroristi”.

Non a caso gli Stati Uniti giudicano positivamente l'incontro con Al-Jolani, leader di Hayat Tahror al-Sham, e tolgono la taglia sulla sua testa. Intanto il capo dei ribelli che hanno deposto Assad, afferma in un'intervista che sarà il popolo siriano a decidere del suo futuro, non i Paesi stranieri, rispondendo a una domanda sulla possibilità di creare uno Stato islamico in Siria. 

Al tempo stesso, l’intensificarsi delle operazioni americane sembra trasmettere un messaggio chiaro: gli Stati Uniti non intendono abbandonare il Medio Oriente, nonostante le priorità strategiche a livello globale (vedi lo scacchiere in Asia sud-orientale), ma la nuova era che si è aperta in Siria con la fine del regime di Bashar Al-Assad, pone interrogativi sulle vere intenzioni di Washington: una strategia a lungo termine per stabilizzare l’area, o un’azione per sfruttare l’incertezza derivata dalla stessa caduta di Assad?

(*Direttore responsabile Assadakah News)

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