Roberto Roggero* - In nome dell’onestà politica, della dignità e della cooperazione internazionale, non si può non sostenere con la massima determinazione, il pieno sostegno al Regno Hashemita di Giordania, che appare sempre più vittima di un vergognoso ricatto politico ed economico, da parte dell’amministrazione americana, a sua volta istigata dalla complicità con l’amministrazione israeliana. La conseguenza è che si sono ancor più definiti i confini di schieramenti già opposti da tempo.
Trump ha detto chiaramente cosa pretende dalla Giordania e, invia indiretta, anche dall’Egitto, in merito all’assumersi pro-tempore (ovvero per sempre) l’onere del mantenimento di milioni di profughi palestinesi, che già abbondano nei Paesi confinanti con Striscia di Gaza e Cisgiordania, ovvero Libano, Egitto, Arabia Saudita, Egitto, sui quali per altro il presidente americano, non può onestamente pretende oltre misura…
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Il presidente egiziano Abdel-Fattah al Sisi non andrà a Washington per incontrare Donald Trump, se l'agenda dei colloqui includerà il piano di sfollare i palestinesi da Gaza, lo hanno fatto sapere fonti di sicurezza del Cairo. Trump aveva invitato Al-Sisi, ma ancora non era stata programmata una data. Come risposta, il governo egiziano ha annunciato di voler presentare un programma organico per la ricostruzione della Striscia che garantisca ai palestinesi di restare nella loro terra. Da ricordare che la Giordania ospita già circa due milioni di palestinesi, un milione circa di siriani, su 11 milioni di abitanti.
Sono quasi 500 giorni che il Medio Oriente si trova ad affrontare una ulteriore emergenza, che coinvolge Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Giordania, Egitto e in sequenza tutti i Paesi arabi, con una tregua che ogni giorno appare più fragile, e tuttavia non si può rinunciare.
Hamas ha mandato una delegazione al Cairo per colloqui sulla tregua, poco dopo aver minacciato di sospendere il rilascio degli ostaggi previsto per sabato "fino a nuovo avviso", e aver accusato Israele di non adempiere agli obblighi dell'accordo.
Le minacce americane sulla liberazione degli ostaggi pena un nuovo inferno, non fanno altro che complicare ulteriormente le cose, con l’aggiunta di dichiarazioni razziste e un appello alla pulizia etnica. Hamas fa sapere che "la porta resta aperta" per rispettare la data di sabato prossimo per il nuovo scambio prigionieri, ma Israele deve "adempiere ai propri obblighi". Da Tel Aviv si risponde con accuse di "totale violazione" del cessate il fuoco, e il premier Netanyahu fa eco a Trump, affermando che se Hamas non restituisce gli ostaggi entro sabato a mezzogiorno, sarà di nuovo e ancora guerra.
In questo drammatico puzzle in continuo mutamento, la Giordania è al centro di una situazione che rasenta il paradosso, nonostante il fatto che re Abdallah abbia numerose volte ripetuto le offerte di mediazione, gli appelli alla pace e la volontà di arrivare a una soluzione, la soluzione a due Stati.
Re Abdallah lo sa bene, ed è per questo che è stato attento a calibrare ogni singola parola all’incontro alla Casa Bianca. Ha evitato di contraddire direttamente Trump, alludendo al piano alternativo presentato dall'Egitto, e ha evitato “il troppo” di fronte ai media, limitandosi a poche dichiarazioni: che avrebbe fatto il meglio per il proprio Paese, a prescindere l’obbligo o meno di accogliere i profughi palestinesi, che hanno comunque diritto di vivere nella propria terra. I Paesi arabi condividono tale principio, in particolare l’Arabia Saudita, dalla quale la famiglia reale giordana discende in linea diretta, cioè dalla regione saudita di Hejaz.
(*Direttore responsabile Assadakah News)
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