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Editoriale - Perché non si vuole l’accordo a Gaza?

Roberto Roggero* - Gli Stati Uniti dovrebbero presentare una bozza di proposta rinnovata e più dettagliata, che includerà dettagli sull'attuazione di un accordo di cessate il fuoco a Gaza e di scambio degli ostaggi. Lo scrive il Wall Street Journal che cita funzionari statunitensi. La nuova bozza di proposta dovrebbe esporre nel dettaglio come avverrà lo scambio di ostaggi e specificare le condizioni in base alle quali le parti potranno tornare a combattere. La proposta specificherà anche per quanto tempo potrà durare la presenza israeliana nel corridoio Philadelphia, fra Gaza e l'Egitto.

È tanto naturale quanto sbagliato leggere gli eventi attraverso la lente dei desideri, soprattutto in Medio Oriente, dopo quasi un anno dall’inizio della guerra più sanguinosa del 2024, con oltre 70mila morti (20mila bambini), carestia e malattie.

Le manifestazioni contro il governo estremista di Benjamin Netanyahu aumentano ogni giorno. A prescindere da quale versione sia quella veritiera, sulla morte degli ostaggi, un fatto è chiaro: la chiara correlazione inversa fra prosecuzione della guerra e probabilità che gli ostaggi rimangano in vita. I cittadini israeliani l’hanno capito e quella fetta della società che vuole vedere in primis il rilascio degli ostaggi è determinata ad aumentare la pressione sul governo affinché si arrivi ad un accordo.

Altrettanto ha fatto l’Histadrut, il principale sindacato israeliano, dichiarando lo sciopero generale. Poi c’è la diplomazia, guidata dal segretario di Stato americano, Antony Blinken, che assieme ai mediatori di Qatar ed Egitto negozia da mesi un cessate il fuoco e la liberazione dei prigionieri. Stando alle dichiarazioni di Washington, le trattative sono (da settimane) sull’orlo di sbocciare in un’intesa, e hanno quantomeno posticipato la ritorsione iraniana per l’uccisione da parte di Israele del leader politico di Hamas Ismail Haniyeh proprio a Teheran, a fine luglio. Schiacciato tra la testarda perseveranza della diplomazia internazionale e la crescente pressione sociale interna, in molti sperano che Netanyahu finalmente faccia un passo indietro, mettendo fine alla sanguinosa guerra a Gaza. È possibile che questo avvenga, e certamente sarebbe enormemente auspicabile. Ma rimane ad oggi improbabile. Netanyahu ha nettamente rifiutato di “arrendersi” a un accordo, continuando ad insistere semmai sul controllo del corridoio Filadelfi, ossia la zona cuscinetto tra la Striscia di Gaza e l’Egitto.

Una presenza militare permanente a Gaza è ora considerata “esistenziale” dal primo ministro israeliano, in quanto è attraverso il corridoio (e i tunnel sottostanti) che Israele sostiene passi il flusso delle forniture militari ad Hamas. Tutto questo è plausibile, ma ciò che rende la posizione di Netanyahu quantomeno sospetta è la relativa novità dell’importanza strategica attribuita dal governo israeliano al corridoio. Come noto, è da mesi che si negozia, e quando il piano del presidente Usa Joe Biden per il cessate il fuoco è stato presentato per conto di Israele, successivamente accolto da un’inedita risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu a giugno, il tema del corridoio Filadelfi non compariva. Si immaginava, infatti, che a monitorare il confine tra Gaza e Egitto potessero essere delle forze internazionali che includessero sia Paesi arabi sia forse europei. Eppure, se il controllo diretto israeliano del corridoio fosse stato davvero esistenziale, presumibilmente avrebbe dovuto emergere come questione dirimente sin dall’inizio delle trattative. Consapevole che anche l’Egitto, e non solo Hamas, rifiuta una presenza militare permanente israeliana al confine di Gaza, lo scoglio del corridoio sembra essere più l’ennesimo tentativo di Netanyahu di sabotare l’accordo cambiando le regole del gioco che una questione di vita o di morte per la sicurezza di Israele. Quando un giornalista ha chiesto a Biden se Netanyahu stia agevolando un accordo, la risposta è stata un deciso “no”.

Nell’eterno giorno della marmotta della guerra a Gaza, l’analisi rimane sempre la stessa. Netanyahu ha bisogno della continuazione della guerra, alimentata dall’irraggiungibile traguardo dello sradicamento di Hamas. Finita la guerra, finisce anche Netanyahu; più chiaro e semplice di così non si può. Tanto più che le elezioni americane si avvicinano: perché mai concedere una vittoria all’amministrazione Biden, e per riflesso alla candidata democratica Kamala Harris, sicuramente più empatica del presidente uscente riguardo alla sofferenza dei palestinesi? Dal punto di vista di Netanyahu, tanto vale tener duro fino a novembre, e attendere che la poca pressione internazionale svanisca del tutto in caso di ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca.

La pressione interna in Israele è senza dubbio una condizione necessaria per un cambio di politica e di governo. Ma è una pressione sostenibile, considerando sia che i manifestanti non sono tutti favorevoli ad un accordo con i palestinesi sia che l’altra metà del Paese sostiene la prosecuzione della guerra di Netanyahu fino all’ipotetica vittoria. La pressione interna è, dunque, necessaria ma non sufficiente. A fare la differenza sarebbe quello che è sempre mancato: una reale pressione da parte di Washington, e in forma molto più ridotta dei Paesi europei, nei confronti del governo israeliano. Un primo segnale importante è arrivato da Londra l’altro ieri, quando il governo laburista di Keir Starmer ha sospeso trenta licenze di esportazione di armi a Israele, incluso aerei, elicotteri e droni, sostenendo che Israele potrebbe e dovrebbe fare molto di più per rispettare il diritto umanitario internazionale, incluso l’accesso agli aiuti umanitari.

La decisione di Londra, che segue quelle di Belgio e Spagna, non sposta di per sé l’ago della bilancia. Ma qualora fosse seguita da misure simili dagli altri due grandi esportatori europei di armi a Israele, ossia Germania e Italia, aumenterebbe la pressione su Washington perché pure gli Usa vadano nella stessa direzione. A quel punto, Netanyahu verrebbe davvero messo alle strette. Ma quel punto è ancora talmente lontano da essere quasi invisibile...

(*Direttore responsabile Asssadakah News)

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