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Editoriale - Netanyahu al fondo del barile?

Roberto Roggero* - Il governo israeliano è sempre più in difficoltà, nella trattativa con Hamas per la liberazione degli ostaggi, chiaro segno che le risorse si stanno esaurendo, e che fra la stessa gente di Israele la protesta si diffonde a macchia d’olio. Una proposta che Hamas potrebbe ritenere non accettabile, così come ci si aspetta dall’oggetto di tale offerta, ovvero il capo politico di Hamas dopo la morte di Ismail Haniyeh a Teheran e Mohammed Deif in Libano: una sorta di lasciapassare per Yaya Sinwar e famiglia, per uscire da Gaza, dove gli israeliani pensano che sia ancora nascosto, e dove le bombe e i missili si accaniscono, nel tentativo di stanarlo dalla rete di tunnel.

Il governo israeliano si intestardisce nel presentare la guerra che ha scatenato a Gaza come una vittoriosa campagna, ma non è come sembra. Le perdite sono ben oltre quelle previste, l’obiettivo di distruggere Hamas continua ad essere irraggiungibile, le spese stanno dilapidando le casse dello stato, e la Lega Araba ha ufficialmente rivolto la richiesta di mandato di arresto internazionale per il premier Netanyahu e il ministro della Difesa, Yoav Gallant, il quale ha chiarito che Israele è sul punto di completare le proprie operazioni militari nella Striscia, e che ora sta concentrando la propria attenzione sul fronte settentrionale con il Libano, proclamando a gran voce che ormai Hamas non esiste più. Una dichiarazione smentita dalla realtà sul campo.

Su quali basi si dovrebbe credere alla proposta israeliana? Dove andrebbe Yaya Sinwar con la famiglia per mettersi al sicuro? Difficile credere nella buona fede del Mossad, che rinuncerebbe a un bersaglio del genere, dovesse trovarsi anche all’altro capo del mondo, e di esempi ce ne sono anche troppi.

Un salvacondotto in cambio degli ostaggi, suscita critiche sia da parte delle fazioni più radicali del governo israeliano. Tuttavia la trattativa, appena cominciata, potrebbe rappresentare un primo passo verso una tregua temporanea, anche se il governo israeliano ha chiarito che non è disposto a fare concessioni a lungo termine sulla smilitarizzazione di Gaza. In sostanza, non ha intenzione di rinunciare. Intanto i bombardamenti continuano al campo profughi di Al-Mawasi, Khan Younis, e anche in Cisgiordania, oltre all’azione devastante dei bulldozer.

Particolare timore desta la situazione al confine con il Libano, per il coinvolgimento di Hezbollah, che già in passato ha dimostrato a Israele che il Paese può essere attaccato, invaso, mai conquistato.

L’atteggiamento americano, dove la priorità sta cominciando a essere la corsa alla Casa Bianca, è di sorprendente ipocrisia: da una parte sostenere Israele, dall’altra esprimere un invito alla moderazione nelle operazioni militari, come se si trattasse di una raccomandazione per uccidere un po’ meno bambini palestinesi mentre si discute il cessate-il-fuoco, tregua a termine definito, per poi riprendere a sparare.

Da considerare poi la posizione della Repubblica Islamica dell’Iran, vero obiettivo di Israele e degli Stati Uniti, e gigante dormiente che sarebbe meglio non provocare oltre. Teheran sostiene Hezbollah e Hamas, questo non è un segreto, e sta mantenendo un atteggiamento saggiamente quieto, ma non certo ingenuo.

Così il movimento Houthi dello Yemen, di cui i media occidentali parlano sempre meno, ma elemento da non trascurare, visto che controlla uno dei punti nodali del traffico commerciale mondiale, fra Golfo di Aden, Bab El-Mandeb e Mar Rosso.

Sopra ogni questione diplomatica e militare, rimane comunque la situazione reale sul campo: una tragica, devastante emergenza umanitaria, che insieme alle altre in corso fra Sudan, Chad, Corno d’Africa, Sahel e altre zone di crisi, offre un quadro non certo incoraggiante. (*Direttore responsabile Assadakah News)

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