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Editoriale - Medio Oriente e nuove strategie geopolitiche

Roberto Roggero* - Con le recenti esercitazioni al largo delle coste del Sultanato dell’Oman, in partenariato fra Arabia Saudita, Russia e lo stesso Oman, il quadro geopolitico della regione mediorientale ha assunto un nuovo assetto. Sviluppi che avvengono in un periodo di altissima tensione, mentre Arabia Saudita e Iran, storicamente rivali, hanno ripreso i rapporti diplomatici grazie alla mediazione della Cina, che mira a stabilizzare l’area in un quadro che promuove un ordine multipolare, in cui Washington perde l’esclusività del ruolo di garante della sicurezza. Una iniziativa che potrebbe essere la risposta a necessità strategiche di controllo e difesa delle vie marittime del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano, fondamentali per il transito di risorse energetiche e commerciali fra Asia ed Europa.

Con la possibilità di un’escalation del conflitto scatenato da Israele, l’Arabia Saudita ha proclamato la propria neutralità, vietando alle parti in conflitto di usare il proprio spazio aereo, il che potrebbe essere visto come proposta per assumere un ruolo di mediatore equilibrato. A complicare ulteriormente il quadro, la fuga di notizie dal Pentagono sugli stessi piani di Israele, incidente che ha indotto Israele a rivedere i movimenti militari, riducendo temporaneamente la probabilità di uno scontro immediato.

Riyadh e Teheran mostrano la volontà di costruire alleanze regionali in risposta alla crescente incertezza sul ruolo americano, lasciando spazio a interventi non solo diplomatici, che suggeriscono un Medio Oriente sempre più autonomo, in grado di determinare la propria stabilità. La collaborazione fra Arabia Saudita, Iran e altri Paesi della regione, indica la consapevolezza del bisogno di un dialogo, per evitare che le tensioni portino verso il baratro.

Israele è ormai intrappolato in una realtà di guerra perpetua, elemento divenuto parte integrante della sua identità nazionale, volta all’utopico progetto della creazione di uno stato sionista esteso dall’Eufrate al Nilo. Il governo sionista di estrema destra giustifica la guerra come necessità esistenziale, che implica la distruzione di ogni nemico, che oggi è identificato con l’Iran, percepito come male assoluto da estirpare ad ogni costo. Ed è proprio questo concetto, con il nemico visto come un’entità malvagia per natura, che rende impossibile ogni tentativo di riconciliazione, e fa della guerra una costante dell’esistenza israeliana. Il problema che tale ideologia coinvolge una parte di mondo a tutti gli effetti fondamentale per la stabilità dell’intero pianeta, e porta anche al conflitto interno allo stesso stato ebraico, solo apparentemente coeso, perché l’opposizione alle folli iniziative del premier Netanyahu e dei suoi tirapiedi è ogni giorno maggiore: la costante conflittualità finisce per esacerbare le divisioni fra settori laici e ortodossi, trasformando la guerra in un elemento di divisione sociale e politica. Inoltre, l’orientamento israeliano verso l’aggressività politica e militare rischia di compromettere il sostegno internazionale, in particolare degli Stati Uniti.

Gli alleati storici iniziano a manifestare di insofferenza verso la volontà di Israele di intraprendere azioni unilaterali rischiose, come contro Gaza o il Libano, che suscita non poche preoccupazioni. Questo atteggiamento potrebbe portare a un crescente isolamento internazionale, minacciando la capacità di Israele di manovrare diplomaticamente e tenere fede agli Accordi di Abramo.

L’approccio di Israele verso le alleanze con i paesi del Golfo, motivato dalla comune ostilità verso l’Iran, oggi è a rischio. L’apertura di diversi molteplici fronti di guerra (Gaza, Libano, Siria, Iran) non solo mette a rischio questi accordi, ma potrebbe portare alla formazione di una coalizione di nemici regionali, e il rischio di una guerra su larga scala, dove la definizione di “nemico” si estende a vari attori, aumentando la tensione su più fronti e complicando la strategia che dovrebbe portare alla pace.

Israele basa la propria tattica su una deterrenza illimitata, la cosiddetta “Mad Dog Strategy” (strategia del cane pazzo), che prevede risposte aggressive e imprevedibili per scoraggiare i nemici, ma comporta anche rischi elevati. La dispersione di Israele su fronti multipli rischia di sovraccaricare le sue risorse soprattutto economiche, con difficoltà nel mantenere una difesa efficace su tutti i fronti.

L’indipendenza operativa di Israele, che spesso ignora i consigli di Washington, porta continua tensione soprattutto nelle relazioni con Washington, fondamentali per la sicurezza israeliana. L’evoluzione del conflitto in altre aree strategiche, come l’Ucraina, sta distogliendo l’attenzione degli Stati Uniti, ma se Israele continuerà ad agire unilateralmente, potrebbe perdere una parte del sostegno americano. A questo si aggiunge l’effetto boomerang del conflitto costante, che genera continua violenza, rafforzando il nemico e radicalizzando nuove generazioni di palestinesi e arabi, creando le basi per un conflitto senza fine.

Il conflitto contro organizzazioni come Hamas o Hezbollah evidenzia non poco i limiti della deterrenza. La natura asimmetrica di questa guerra, fatta di attentati e incursioni mirate, sfida la capacità di controllo di Israele e rende inefficace la deterrenza in un contesto di eccessiva radicalizzazione, perché vi è un ritorno di aumento incontrollato di resilienza e volontà di sacrificio. La politica israeliana sembra ormai orientata verso il conflitto come unica opzione, abbandonando l’idea di soluzioni pacifiche, e mirando a un predominio militare che, però, non garantisce sicurezza duratura.

La questione si evidenzia in particolare nel campo degli equilibri economici e commerciali, che sono sempre i principali motivi di un conflitto, e possono determinare cambiamenti nei rapporti fra Paese e Paese. E' ciò che sta accadendo...

(*Direttore responsabile Assadakah News)

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