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Editoriale - L’importanza del fattore Giordania

Roberto Roggero* - La Giordania sta affrontando un momento delicato, con le elezioni parlamentari in corso, oscurate dallo spettro della guerra a Gaza e in Gisgiordania, e con il rischio perenne di una incontrollata escalation, segno di una sempre crescente tensione, e gli aerei israeliani attaccano in Siria, causando la morte di una ventina di civili, e ancora dopo l’attacco della IDF a Khan Younis, con 40 morti, e le minacce di Netanyahu a Siria e soprattutto Libano.

Quella di Israele è una guerra su più fronti, con una situazione instabile anche sul confine con la Giordania, che i vertici israeliani sognano di far diventare Stato palestinese, risolvendo così l’antica questione dei rapporti fra Tel Aviv e Palestina.

A quasi un anno dallo scoppio del conflitto Israele-Hamas, lo scenario non cambia, anzi, Netanyahu vorrebbe allargarlo al Libano, per risolvere la questione Hezbollah, dimenticando che Israele ha invaso altre volte il Paese dei cedri (nel 1982-200 e nel 2006), senza mai risolvere niente, perché Hezbollah è sempre più potente. La soluzione militare si è sempre rivelata un fallimentare disastro.

Allo stato attuale della situazione, non pochi vedono anche l’eventualità che la Giordania possa diventare un nuovo fronte della guerra a Gaza. Vi è una notevole percentuale di cittadini giordani di origine palestinese, con un legame che esiste fin da quando, prima del 1967, Amman amministrava Gerusalemme Est e Cisgiordania. I giordani di origine palestinese sono partner nella creazione del Regno e contribuiscono alla sua costruzione fin dalla prima istituzione durante l'era dell'Emirato nel 1921 e estendendosi da quando il Regno fu dichiarato nel 1946 ad oggi.

Il governo israeliano di estrema destra sta colpendo duro, in Cisgiordania come a Gaza, per costringere i palestinesi a lasciare il territorio e ributtarli oltre il corso del fiume Giordano, sebbene la Giordania sia in pace con Israele dal 1994.

La Giordania deve poi tutelare non solo il confine con Israele, ma anche i confini orientali e meridionali: l’Iraq è una questione difficile da affrontare, come la Siria, senza dimenticare l’Arabia Saudita, che vede volentieri un proprio controllo sui luoghi santi dell’Islam. Non è un caso se il principe ereditario giordano ha sposato una giovane saudita.

E poi ci sono le elezioni. Il parlamento è in corso di riorganizzazione, è un organismo importante, ma in ogni caso l’ultima parola spetta a re Abdallah II.

Lo scenario mediorientale rientra comunque nella strategia di Netanyahu per rimanere al potere: mantenere il conflitto e possibilmente allargarlo, per non porre fine alla propria carriera, ma anche per non finire in carcere, visti i ben tre capi d’accusa dei quali deve rispondere, oltre al fatto che ha perso notevole consenso popolare e insiste nello sbandierare il pericolo della sopravvivenza del Paese come estremo tentativo di tenere compatta una società molto divisa, non solo fra destra e sinistra, ma fra religiosi e laici, fra ashkenaziti e sefarditi e altri ancora. In ogni caso, è dimostrato che la strategia di Netanyahu è molto criticata dai vertici militari, che vorrebbero una tregua, anche perché sanno fin dall’inizio che non possono sradicare veramente Hamas, tanto meno Hezbollah.

(*Direttore responsabile Assadakah News)

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