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Editoriale - Il Medio Oriente e la fiera delle illusioni

Roberto Roggero* - Perché gli USA continuano a proclamare l’intenzione di voler evitare una escalation in Medio Oriente, e poi inviano truppe e armamenti?

Nel solo mese di agosto, Washington ha dislocato nell’area ingenti forze navali e aeree, raggiungendo il punto più alto dall’ottobre 2023, a causa della tensione fra Stati Uniti e Repubblica Islamica dell’Iran e soprattutto dopo la delirante azione che ha determinato la morte del capo dell’Ufficio Politico di Hamas, Ismail Haniyeh, avvenuta a Teheran lo scorso luglio, con ripetute minacce di ritorsione da parte dell'Iran contro Israele.

L’Iran, da parte sua, ha già più volte sottolineato che la risposta all’azione in cui è stato ucciso Haniyeh, non avrebbe lo scopo di portare la regione in un conflitto fuori controllo, ma sarà una risposta “chirurgica”, mirata e diretta.

Intanto, il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin, ha ordinato alla portaerei USS-Abraham Lincoln di posizionarsi in Medio Oriente, con i gruppi delle altre portaerei classe Nimitz salpate separatamente dalla base di San Diego.

A questo punto non si sa se, di fronte a tali evidenze, i governi occidentali “ci sono i ci fanno”. Insomma, pare non rifiutino di tuffarsi nella trappola della buona fede americana, con il presidente Biden che si presenta come amico e protettore di Israele, e che dichiarato che lo Stato ebraico rischia di perdere il sostegno internazionale a causa di quelli che ha definito “bombardamenti indiscriminati” a Gaza. Ipocrisia: la dichiarazione di Joe Biden è stata diffusa lo stesso giorno in cui l’Assemblea Generale ONU votava a larghissima maggioranza una risoluzione per un cessate il fuoco umanitario immediato a Gaza. L’Italia, fedele alla propria immagine di bieco vassallaggio, si è astenuta con altri Paesi europei, dando prova di sempre meno credibilità, confidando nel fatto che il peso politico del Paese sembra che si noti di più quando c’è, perché non si vede, piuttosto che nelle poche occasioni in cui è stato apertamente manifestato. In ogni caso, avrebbe avuto comunque valore simbolico dal momento che le risoluzioni ONU non hanno carattere vincolante secondo il diritto internazionale. E’ comunque sufficiente considerare l’impegno italiano nel programma di aiuti internazionali “Food for Gaza”, portato avanti contemporaneamente alle vendite di armamenti a Tel Aviv: da una parte ci si impegna a salvare vite, dall’altra a fornire armi per distruggere quelle stesse vite. E’ l’arte tutta italiana di riuscire ad applaudire con una mano sola.

Washington non ha mai votato una condanna di Israele, non ha mai approvato o attuato sanzioni per lo Stato ebraico, e si limita ad ammonizioni verbali per quanto riguarda la questione degli insediamenti illegali.

Nulla di più che una commedia diplomatica in scena da decenni, che maschera una tragedia, con risultati non certo positivi: dagli accordi Oslo del 1993 a oggi, Israele ha portato i coloni in Cisgiordania da 100mila a 800mila, e se si dovesse proclamare uno Stato palestinese, sarebbe ridotto al 22% di quello previsto dal piano di spartizione proposto proprio dall’ONU nel 1947.

L’atteggiamento americano è una presa in giro totale, che si chiama doppio standard, ovvero “due pesi e due misure” (se non di più). Ne è un esempio ciò che successe nel 1990, quando gli USA fecero votare al Consiglio di Sicurezza ONU sanzioni immediate contro l’Iraq che aveva invaso il Kuwait, ma l’’occupazione israeliana della Cisgiordania, che dura da mezzo secolo, non ha mai suscitato lo stesso sdegno.

Se questo si chiama Diritto Internazionale, lo è sicuramente per gli Stati Uniti e gli alleati occidentali. La stressa barzelletta che si legge nelle aule dei tribunali: “La legge è uguale per tutti”. Questo Netanyahu lo sa benissimo, infatti ha subito replicato che per lui gli accordi di Oslo (primo embrione di autogoverno palestinese) semplicemente non esistono, né è concepibile alcuna Soluzione a Due Stati. Di fatto, non c’è stata mai stata la volontà pratica di cambiare le cose, ma di portare avanti il doppio metro di misura, continuando a inviare a Israele circa 4 miliardi di dollari all’anno in aiuti militari, che dalla nascita dello Stato di Israele, oggi ammontano a oltre 130 miliardi di dollari.

Il bilancio delle forze armate israeliane supera quello di Iran, Egitto, Giordania e Libano messi insieme. Senza contare il potenziale atomico. E non è tutto: Washington ha anche approvato una proposta per ulteriori 14 miliardi di dollari, nonostante il fatto che Israele oggi per gli Stati Uniti è sempre più una patata bollente, e il presidente Biden cerca sempre di presentare Netanyahu in un ruolo diverso da ciò che è, ovvero una creatura “Made in USA”.

Il conflitto Israele-Hamas, con protagonisti, co-protagonisti, antagonisti e comparse, è comunque la prova lampante della scarsa influenza dell’Occidente (cioè dell’Europa) nella Regione, e in particolare mostra in modo estremamente evidente l’ipocrisia politica degli Stati Uniti, messa a confronti con quella altrettanto manifesta della Turchia, con le sue ambizioni.

Il rifiuto dell’UE ad accogliere la Turchia, unitamente alla posizione turca nell’ambito delle tensioni nel Mediterraneo orientale e alle implicazioni nel conflitto Siriano e del Nagorno-Karabakh, mostrano una tendenza sempre più neo-ottomana, specialmente riguardo alla cooperazione con Hamas per un piano triennale per la costruzione di una base in territorio turco, per coordinare attacchi rivolti a Israele e a probabili obiettivi della Nato. Da non dimenticare che, nel quadro del riavvicinamento al mondo arabo, la Turchia deve fare i conti anche con Libia, Marocco, Sudan, e non solo.

Il sostegno alla causa palestinese, unitamente al riavvicinamento ai Paesi arabi e alla Russia, lascia intravvedere una nuova direzione nella politica estera turca, improntata sul dialogo diplomatico con i protagonisti regionali nel conflitto, proponendosi come nuova potenza stabilizzatrice al posto degli Stati Uniti.

Suscita ulteriori quesiti riguardo a quali potrebbero essere le conseguenze del conflitto sugli equilibri della Regione anche l’intraprendenza di Teheran, che per altro non ha ancora del tutto scartato l’eventualità di una partecipazione più attiva a sostegno di Hamas e di Hezbollah, con una presenza indiretta in molti Paesi della Regione.

Storicamente, non è negli interessi iraniani dare avvio un conflitto aperto, principalmente per motivi di ordine tecnico: sebbene l’arsenale iraniano sia il più potente della regione, non è però tra i primi in qualità ed efficienza, specie per quanto riguarda le difese aeree, se si considerano quelle Israeliane.

Gli Stati Uniti, da parte loro, hanno lo scopo di mantenere una certa stabilità per favorire lo sviluppo dei Paesi produttori di petrolio, ma l’ambizioso progetto deve però fare i conti con la realtà. In aggiunta, il veto americano all’ammissione della Palestina all’ONU ha un significato politico oltremodo evidente.

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