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Editoriale - Dove porterà la follia israeliana?

Roberto Roggero* - I negoziati al Cairo sono nuovamente interrotti, non hanno portato a una svolta. L'accordo è ancora troppo lontano. Ai colloqui, autorizzati dal premier israeliano Benyamin Netanyahu, avevano partecipato i capi del Mossad e dell'agenzia di sicurezza interna Shin Bet (David Barnea e Ronen Bar) oltre al coordinatore delle attività governative nei territori Cogat, Ghassan Alian; al capo dell'intelligence egiziana, Abbas Kamel; e alti funzionari militari egiziani. Fonti egiziane ben informate hanno annunciato la partenza delle due delegazioni israeliane di alto livello dagli aeroporti militari di El Alamein e Almaza, a bordo di due aerei privati e diretti all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv.

Nel Medio Oriente bisognoso di tregua, i fronti di guerra aumentano. La Striscia di Gaza è un campo di battaglia dove non si distinguono vincitori e vinti, e dove anzi tutti paiono perdere, Hamas, i palestinesi e soprattutto Israele. La Siria è uno scacchiere su cui le grandi potenze, tra tutte Usa e Russia, continuano a restare schierate, muovendosi anche senza una chiara strategia e senza riuscire chiudere la partita.

Quando per tradizione si è soliti guardare al futuro con ottimismo, bisogna considerare determinati fattori penalizzanti, come il fatto che si stanno combattendo diversi conflitti, oltre alla guerra nella Striscia di Gaza. Guerre a tutti gli effetti, con intensità non inferiore e vittime innocenti, missili, blitz vendicativi e omicidi mirati, con diversi attori in campo, fra cui Israele, Hamas, Hezbollah, Iran, Stati Uniti, Gran Bretagna, Yemen, Libano, Siria, Iraq, Isis, curdi e movimenti separatisti minori. Ultimo inatteso arrivato, il Pakistan.

Se l’allargamento del conflitto di Gaza è da mesi la preoccupazione quotidiana di capi di governo, generali, osservatori, investitori e cittadini consapevoli, questo caos dovrebbe esserne la prova: è in corso una grande guerra mediorientale. In realtà è difficile sostenere che il Baluchistan, fra Iran e Pakistan, dove i due Paesi si sono vicendevolmente bombardati, sia una conseguenza di Gaza e della carneficina in corso da parte di Israele su donne e bambini palestinesi.

Il massacro di un centinaio di civili all’inizio dell’anno in Iran lo ha compiuto l’Isis, mentre Teheran, secondo i media occidentali, finge di vedere israeliani e americani dietro ogni angolo, ma i vertici della Repubblica Islamica sanno bene che i nemici sono molti, specie a livello nazionale e regionale, e non solo Tel Aviv e Washington.

Nel Nord di Siria e Iraq, gli scontri fra americani, milizie filo-iraniane, islamisti e curdi avvengono da anni, e rappresentano capitoli diversi dell’instabilità mediorientale, conseguenze della fallimentare invasione americana di Afghanistan e Iraq, e della trasfigurazione in guerre civili delle primavere arabe.

In Libano regna l'insicurezza e il timore che la follia israeliana possa coinvolgere il Paese con l'entrata di Hezbollah in un conflitto aperto.

Gli Houthi yemeniti sostengono di lanciare i loro missili per solidarietà con i palestinesi, ma se domani cessasse il fuoco a Gaza, è difficile credere che anche gli Houti dello Yemen decidano di cessare le proprie azioni, dopo avere scoperto quanto sia facile interrompere una via d’acqua essenziale per i commerci mondiali e ottenere richiamo internazionale.

Esclusi Israele e Hamas, che per ragioni diverse vorrebbero un allargamento del conflitto, nessuno vuole che il Medio Oriente esploda. Sarebbe una catastrofe, anche per chi non combatte, ma partecipando a bassa intensità, con azioni mirate o dichiarazioni minacciose, nessuno sta facendo qualcosa per impedirlo. Più del tentativo di costruire negoziati, trionfano veti e minacce.

Gli Stati Uniti criticano apertamente i comportamenti d’Israele ma continuano a rifornirlo di bombe e missili che uccidono donne e bambini palestinesi. L’Iran non vuole intervenire nel conflitto di Gaza ma sostiene la resistenza palestinese. Secondo l’intelligence americana Teheran avrebbe ripreso l’arricchimento dell’uranio fino ad avere il materiale necessario per tre bombe atomiche. Una bufala mediatica come quella delle armi di distruzione di massa pronte all’uso nell’arsenale di Saddam Hussein, che non sono mai esistite ma furono un ideale casus belli montato ad arte. L’Iran non ha bisogno di armi atomiche, che per altro ormai sono addirittura anacronistiche, perché ha numerosi altri metodi, posto che usare un'arma atomica farebbe passare chiunque automaticamente dalla parte del torto.

Come avvenne per la prima guerra mondiale, imperatori e capi di governo di tutta Europa dicevano di non volere un conflitto, ma fecero in modo di alimentare il clima tensione che, al primo inaspettato incidente, la rese inevitabile. Lo stesso stato di coscienza alterata del Medio Oriente di oggi.

Prima che nascessero gli stati che conosciamo, il conflitto fra arabi ed ebrei, e fra palestinesi e israeliani, è sempre stato un forte elemento di disequilibrio nella Regione, ma oggi il Medio Oriente non è instabile solo per la guerra a Gaza, bensì perché è diventato un catalizzatore di tutti gli altri fenomeni, pur non essendolo realmente, per volere di chi può trarre vantaggio da un conflitto allargato.

Per questo è importante che la guerra di Gaza abbia fine, sebbene non se ne vedano i segnali. Inoltre, è sempre più evidente lo scontro fra l’amministrazione americana e Netanyahu sul dopoguerra: Biden pensa a uno stato palestinese, il premier israeliano non lo vuole, perché se lo facesse cadrebbe il suo governo di estrema destra nazionalista. Secondo un giornale israeliano, più della guerra per la vittoria a Gaza (obiettivo semplicemente irrealizzabile), Netanyahu sta combattendo per la sua sopravvivenza politica. Lo Shin Bet, il servizio segreto interno israeliano, sostiene che il conflitto potrebbe allargarsi in Cisgiordania ormai “alle soglie di un’esplosione”. Da settimane i vertici militari chiedono al governo di riprendere a trasferire le tasse che, secondo vecchi accordi, raccoglie per conto dell’Autorità Palestrinese di Ramallah, e far tornare i palestinesi al lavoro in Israele. Intanto, dopo Gaza, la fame sta arrivando anche in Cisgiordania.

(*Direttore responsabile Assadakah News)

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