(m.m.) - Ieri a Roma ha avuto luogo un convegno di alto profilo, organizzato dalla rivista Indipendenza, in cui si è parlato della situazione delle donne italiane ed iraniane. Si potrebbe pensare che un ulteriore meeting su quest’argomento serva a poco, in quanto noi, fruitori di informazioni globalizzate e di massa, ben conosciamo le differenze: le italiane sono libere, e le iraniane no; le donne della penisola possono contare sull’appoggio di menti maschili emancipate, mentre quelle che vivono nella regione, storica culla del monoteismo, sono oppresse dagli uomini e dalla loro interpretazione dell’Islam. La realtà, però, è tutt’altra e alla verità fattuale ci si può avvicinare solo se la curiosità e la spinta a comprendere questo mondo complesso è appagata non dalle notizie pubblicate dal mainstream, bensì dalle informazioni, dati alla mano, degli esperti di settore.
Nel convegno di ieri si è avuta conferma che bisogna dimenticare la diffusione delle notizie e comprendere la realtà in base al quadro delineato dalle analisi dettagliate, come ad esempio quelle delle relatrici al convegno. Liliosa Azara, docente di storia contemporanea e storia delle donne presso l’Università di Roma Tre, ha ribadito in un eccelso intervento, in cui ha delineato il percorso storico del 20esimo e 21esimo secolo, che il cammino delle donne italiane verso l’emancipazione è stato lungo, tortuoso e irto di ostacoli. L’attuale emancipazione della donna italiana, così ha concluso, è una conquista incompleta visto che nonostante le leggi approvate nel corso dei decenni, la loro effettiva applicazione e ricaduta nella vita quotidiana del mondo femminile stenta a realizzarsi. Un esempio per tutti: in Italia, le donne sono tuttora pagate meno degli uomini per lo stesso lavoro effettuato. Di lavoro ha parlato anche Marjan Hoshyar, CEO di una delle più grandi aziende edili dell’Iran e presidente dell’associazione donne imprenditrici nel settore edile in Iran. Ha sottolineato che le donne iraniane hanno fatto grandi progressi negli ultimi decenni, ottenendo una serie di incarichi di prestigio, anche nell’ultimo governo.
Meshkat Asadi, amministratrice generale del centro iraniano per le innovazioni “AAN”, ha spiegato il ruolo di questo incubatore delle scoperte tecnologiche in ambito minerario in Iran. Poi però si è soffermata anche sui problemi che le donne iraniane affrontano in campo lavorativo, sottolineando il peso che le sanzioni economiche occidentali hanno proprio in questo contesto, perché a subire gli effetti devastanti delle sanzioni sono, per prime, le donne. Non si può fare a meno di notare che se da un lato l’Occidente fa di tutto per sostenere le rivendicazioni delle donne iraniane, dall’altro, con le proprie sanzioni economiche, di fatto ne ostacola la realizzazione. Interessante e assolutamente condivisibile è stato anche l’intervento di Anna Valvo, professoressa ordinaria di Diritto dell’Unione Europea presso l’Università di Catania, dal titolo: il Burqa invisibile delle donne occidentali.
Nella sua relazione ha rilevato le costrizioni a cui sono sottoposte le donne italiane (ma questo discorso vale per tutto il mondo femminile occidentale) per potersi adeguare a quelle che sono le “richieste” della società, del gruppo e in particolare dei social. Il doversi truccare e vestire o svestire in un certo modo, il dover far presenza in televisione prevalentemente come oggetto di attrazione sessuale (seduta su uno sgabello, gonne strette e corte, tacchi alti), etc. etc.
Con estrema onestà ha puntato il dito contro la mercificazione del corpo femminile in Occidente e contro le donne che non si ribellano a queste richieste. Richieste che vengono da istanze, spesso maschili, per sfruttare (basti pensare alla pubblicità) la donna quale objet du desir, togliendole dignità.
Perdita di dignità di cui molte, specie tra le giovani, neppure si rendono conto, specie quando sottopongono il proprio corpo agli interventi chirurgici pur di adeguarsi alle richieste del sociale, anzi oramai dei social. L’intervento della professoressa Valvo è stato quello di far vedere, come lei stessa ha ribadito, che le italiane, come molte delle donne occidentali, indossano il burka invisibile di una prigione che le costringe ad assomigliare ai modelli culturali di bellezza e di comportamento anglo-americani, inducendo in loro un senso di inadeguatezza e di infelicità inespressa.
Indubbiamente tutto questo non c’è in Iran, dove le donne come ben sappiamo, seguono norme religiose che impongono loro l’uso di veli e di vestiario sobrio per coprire l’attrattiva femminile, quando sono in pubblico.
Se anche qualcuno tra gli astanti al convegno scuoteva la testa durante l’intervento di Hanieh Tarkin, docente di studi islamici e analista geopolitica, devo dire che, in un’analisi più elaborata, non si può che concordare con molti degli aspetti e delle conclusioni a cui è giunta questa giovane e colta italo-iraniana, specie quando ha ribadito l’importanza della religiosità e della spiritualità (due elementi ben diversi dalla religione) nella vita di ciascuno di noi.
Ha tenuto a sottolineare che è proprio questo uno degli elementi cardine del mondo islamico iraniano, ossia far sì che nella quotidianità di uomini e donne vi sia anche la dimensione spirituale, in modo da rendere la vita più completa. A questo punto viene in mente il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, molto studiato e apprezzato in Iran, il quale nel suo “Così parlò Zarathustra” fa dire al personaggio principale che in Occidente Dio è morto, ma che lo abbiamo ucciso noi, e che da quel momento in poi cammineremo, traballando, come degli ubriachi, perché, e questa è una mia aggiunta, non sapremo più distinguere il bene dal male. Un altro filosofo tedesco, Walter Benjamin, scrisse diversi decenni più tardi che le religioni erano state sostituite dal capitalismo e forse la giovane relatrice aveva in mente proprio le sue di parole quando ha sottolineato che l’emancipazione del mondo femminile occidentale si misura in base ai conseguimenti materiali.
Mentre le relatrici esponevano fatti e cifre, proponendo le dettagliate visioni di mondi così diversi, pensavo tra me e in maniera utopica, in quale dei due mondi avrei preferito fare crescere mia figlia. La risposta l’ho trovata dopo l’ultimo intervento al quale ho assistito. Nargess Yaghoubi Nia, una giovane iraniana, priva di velo, attualmente ricercatrice presso l’Università Tor Vergata di Roma, ha mostrato di cosa sono capaci le donne iraniane, quando uno Stato le supporta come fa l’Iran. Ebbene questa giovane è rappresentativa di un mondo estremamente emancipato e che vede tra gli studenti iraniani delle discipline STEM (ossia scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) prevalere le ragazze con ben il 70 percento. Sottolineo che tale percentuale è la più alta al mondo. Colgo però anche l’occasione per dire che in gran parte del mondo arabo il numero delle donne che si laurea in queste discipline, che da noi sono considerate (anche se non viene detto apertamente) delle materie maschili e non accessibili “da un cervello femminile”, è più alto che in Occidente. D’altro canto è stato proprio il sistema educativo iraniano a consentire ad una mente brillante come quella di Maryam Mirzakhani di ottenere, come prima donna al mondo, la medaglia Fields per le sue scoperte in campo matematico (la medaglia Fields è considerata il Nobel assegnato a questa disciplina).
Va detto che in Europa e negli Usa rispettivamente solo il 32,8 percento e il 34 percento delle donne si laurea nelle discipline “maschili” STEM. In Iran la quota è certamente più elevata, visto che il 70 percento del corpo studenti in queste materie è costituito da donne (in molti paesi arabi, tra cui Marocco, Siria e Tunisia, le percentuali occidentali di cui sopra sono superate di gran lunga, come riportato dai dati UNESCO). Evidentemente nel mondo islamico le ragazze affrontano con maggiore serenità le discipline, considerate meno femminili, come ingegneria, matematica, tecnologia e scienza.
Tutti questi fatti, sconosciuti ai più, perché noi tutti subiamo una marea di informazioni parziali, se non addirittura falsificate, fanno riflettere ulteriormente, e per quella figlia ipotetica, vorrei due cose: uno Stato che la supportasse come fa l’Iran con le sue giovani studentesse, ma anche la libertà di potersi esprimere, criticando certi aspetti del proprio sistema e della propria società, come hanno fatto ieri le relatrici italiane. E’ un’utopia, ma forse proprio noi donne, così diverse seppur così solidali, potremmo muovere i primi passi in questa direzione e realizzare lo scopo per il quale noi tutti siamo su questo pianeta: costruire il bene comune.
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