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Editoriale - Antonio Tajani e l’effetto domino

Roberto Roggero* - Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, continua a volersi districare fra dichiarazioni azzardate come se si trovasse fra i partecipanti a una discesa di slalom speciale, il cui premio è la posizione di prestigio e credibilità da recuperare, e il voler portare l’Italia a un ruolo ufficialmente riconosciuto, ma con il rischio di saltare qualche bandierina e causare un non tanto pericoloso quanto imbarazzante e penalizzante effetto domino.

Un esempio è stata la azzardata dichiarazione con la quale annunciava la riapertura della sede diplomatica italiana a Damasco, in una fase tutt’altro che distesa e, in tutta onestà, non certo favorevole dal momento che la guerra in Siria non si è mai potuta definire conclusa, quando il governo Assad controllava un territorio nazionale pari al 70%, mentre il restante 30% era saldamente in mano a formazioni definite ribelli, quale è Hayat Tahrir Al-Sham e le altre accodate.

La chiusura dell’ambasciata italiana era stata decisa nel 2012, in segno di protesta ufficiale per ribadire la più ferma condanna delle atrocità compiute dal regime di Bashar Al-Assad nei confronti dei propri cittadini, salvo poi arrampicarsi su specchi impraticabili perché, se non si fosse verificata la caduta dello stesso Assad, sarebbe stato il momento di fare riapparire il dittatore siriano come un capo di stato con il quale riaprire relazioni bilaterali. Ecco quindi manifestarsi un problema di credibilità di non poco conto: qual è la differenza fra il regime di Assad del 2012 da quello del 2024? Forse il regime aveva smesso di arrestare arbitrariamente ogni oppositore e di torturarne mogli e figli? Forse Assad aveva deciso di chiudere il carcere di Sednaya, tristemente noto come “mattatoio umano”? Perché quindi riaprire l’ambasciata italiana a Damasco?

Quale credibilità, se in precedenza Assad è stato definito “macellaio del suo stesso popolo” e condannato a livello internazionale, poi riconsiderato accettabile come interlocutore, e in una ulteriore ripresa (in occasione della caduta del regime) dichiarare “anche il regime più crudele può cadere”…?

Di conseguenza, che cosa si dovrebbe pensare delle dichiarazioni a proposito della situazione nella Striscia di Gaza, e del fatto che l’Italia ospita il rappresentante diplomatico dello Stato Palestinese con tanto di ambasciata, e al tempo stesso non vuole riconoscere lo Stato di Palestina? Una evidente contraddizione in termini che rasenta il teatro dell’assurdo.

Ma c’è di più: con quale spirito il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen, in Italia per una visita ufficiale, incontrerà il presidente del Consiglio Giorgia Meloni e lo stesso ministro degli Esteri? A rinforzare l’effetto domino, la nuova notizia della nomina di un ambasciatore italiano per lo Yemen, che a tutti gli effetti non è un ambasciatore, ma nulla più che un incaricato per il collegamento presso il governo yemenita in esilio in Arabia Saudita, particolare che sarebbe stato necessario precisare, perché parlando di un ambasciatore per lo Yemen si fa presto a equivocare, dal momento che la capitale Sanaa e la maggiore parte del Paese è controllata dagli Houthi, e riesce difficile credere che il governo italiano possa nominare un ambasciatore in loco.

Bisogna certo precisare che le scelte della politica italiana non dipendono esclusivamente dal ministro degli Esteri, e che la politica internazionale dell’Italia, per servire davvero l’interesse nazionale, debba mettere in discussione determinati quadri di potere, salvo affiancarsi a nuovi potenti, quando la situazione si capovolge e prende direzioni inaspettate.

Storicamente, non è un segreto, la politica italiana è maestra nell’arte di tenere il piede in più scarpe, salvo quella di sbagliare misura di piede, sia di una che dell’altra…

(*Direttore responsabile Assadakah News)

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