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DOSSIER - La guerra della Grande Diga


Redazione Assadakah – Un altro avvenimento, in atto da tempo, di cui i media occidentali si sono occupati e si occupano poco, è la drammatica situazione generata dalla costruzione della Grande GERD (Grand Ethiopian Renaissance Dam, o Grande Diga della Rinascita Etiopica) che coinvolge non solo Egitto, Etiopia e Sudan, ma anche l'Italia, in quanto il progetto è stato realizzato principalmente, in circa dieci anni, dalla azienda italiana WeBuild (Impregilo-Salini). Una vera e propria guerra dell'acqua, che ha generato conseguenze funeste, e a diversi livelli. Con l'Italia, direttamente coinvolta anche la Francia, con la azienda Alstom, che fornisce i dispositivi idroelettrici della diga. Azienda che è in rapporti commerciali anche con l'Egitto, soprattutto nel campo dell'industria militare. A seguire, la Cina con cinque grandi aziende impegnate.

Il Regno d'Arabia Saudita sostiene l'Egitto, gli Emirati Arabi hanno grandi investimenti in Etiopia ma sono anche in rapporti con Il Cairo, e la Turchia, anche qui in gioco, è apparentemente dalla parte di Addis Abeba.

In effetti è una impresa realmente ciclopica: la più grande opera umana in terra d'Africa lungo il Nilo, comprende un bacino di 75 miliardi di metri cubi d'acqua in una estensione di oltre 250 km (per rendere l'idea, cinque volte il lago di Garda), nella regione di Benishangul Gumaz, a circa 700 km da Addis Abeba e a soli 15 km dal confine cono il Sudan. Il bacino idrico, con una superficie di circa 2000 km quadrati, comprende il Nilo Azzurro che poi si congiunge con il Nilo Bianco nei pressi di Khartoum e quindi procede in Egitto.

Le autorità etiopi hanno un enorme interesse geopolitico nel portare a compimento il Progetto GERD, oltre agli aspetti economici, che faranno diventare l'Etiopia il maggiore produttore di energia rinnovabile dell'intera Africa, e distributore a 1/4 del continente e naturalmente della propria popolazione di circa 120 milioni di persone.

Per ragioni tecniche, ci sono tempi rigidamente stabiliti, ad esempio per i complicati procedimenti di riempimento delle migliaia di condotte con più di 14 miliardi di metri cubi di acqua (giugno-settembre), e una potenza accumulata di 5.150 Megawatt.

Da considerare poi la sfida alla Natura, per imbrigliare le tumultuose acque del Nilo Azzurro, costata più di 6 miliardi di dollari (circa il 53% del bilancio ufficiale della Repubblica di Etiopia), e opere che hanno richiesto, dal 2011, oltre 10 milioni di tonnellate di calcestruzzo per muri alti fino a 170 metri ed estesi per più di 2 km.

La contesa, che crea continue tensioni fra i Paesi coinvolti direttamente e quelli che ne usufruirebbero considerando l'indotto, ha raggiunto livelli preoccupanti, perché la posta in gioco è oltre modo notevole. Diplomazia, incontri, discussioni da una parte, e scontri armati con vittime fra la popolazione dall'altra, mentre i governi di Sudan, Etiopia ed Egitto sono impegnati nel trovare una soluzione. In particolare, al Cairo la situazione crea preoccupazione, visto che il Paese è attualmente in crescita demografica e dipende per oltre il 95% delle forniture idriche ed energetiche dal Nilo. Nel frattempo, a Khartoum regna la stessa tensione, perché il Sudan ha già subito ridimensionamenti geofisici nel territorio a monte della capitale, e accusa una diminuzione della forza produttiva dei propri impianti idroelettrici. A tutto si aggiungono le accuse rivolte all'Etiopia, considerata sostenitrice delle milizie che stanno seminando terrore nella regione di confine di Al Fashaga, nonché della rottura degli Accordi del 2008, provocando ondate di sfollati in fuga.

Il premier etiope Abiy Ahmed (Nobel 2019 per la Pace) è un accanito sostenitore della Grande Diga, per evidenti ragioni, e continua a gettare benzina sul fuoco, specie nei confronti dell'Egitto, sventolando motivazioni patriottiche, oltre che politiche, cercando di allargare il proprio consenso. Molto tesi anche i rapporti Addis Abeba-Khartoum, sempre al limite del baratro, per una guerra che, se dovesse scoppiare apertamente, avrebbe conseguenze difficilmente immaginabili. Lega Araba, Unione Africana e ONU sono profondamente impegnate nel cercare di portare i protagonisti al tavolo delle trattative, ma non è certo un percorso facile e non rimane molto tempo. Dal fertile triangolo di Al Fashaga, la tensione si è già allargata all'intero e strategico Corno d'Africa, con sbalzi di tensione di cui risente soprattutto l'Europa, che potrebbe avere ripercussioni sia a livello economico che dal punto di vista dei flussi migratori, che subirebbero un inevitabile incremento.

Le tappe del progetto GERD intanto proseguono: all'inizio di luglio il ministro etiope dell'Acqua, Seleshi Bekele, ha reso noto l'avvio di una nuova fase delle procedure di riempimento del bacino idrico, e l'omologo egiziano Mohammed Abdel Aty ha riunito il proprio staff per trovare rimedio alla situazione che si creerà dalla mancanza di irrigazione per migliaia di ettari di terra.

I governi di Sudan, Egitto ed Etiopia hanno ormai dichiarato che la questione GERD è priorità di sicurezza nazionale, agendo di conseguenza, con il rischio di fare precipitare la situazione, senza dimenticare i molto generosi investimenti cinesi.

Addis Abeba mira, comprensibilmente, a rafforzare la propria posizione, già di vantaggio, mirando in particolare agli oltre 800 milioni di dollari all'anno calcolati in vendite e distribuzioni di energia a Kenya, Sudan e Gibuti, ma non ha ancora mostrato interesse per il territorio e la popolazione egiziana che subiranno le conseguenze di tutto questo, con un calo di almeno il 25% di energia utilizzabile.

Non poche organizzazioni, sia ufficiali che non-governative, hanno denunciato la violazione del Diritto Internazionale, e la diplomazia è al lavoro per portare i protagonisti a pensare una cooperazione che possa portare giovamento comune, ma l'Etiopia si sta dimostrando molto restia a concedere informazioni e dettagli.

Dal 2011, per le autorità di Addis Abeba la Grande Diga della Rinascita è diventata simbolo dell'unità nazionale, sebbene dopo l'insurrezione scoppiata in Oromia nel 2020, per l'assassinio del celebre cantante locale Hachalu Hundessa, e l'attuale guerra nel Tigray, il potere di un sia pur enorme progetto infrastrutturale appare decisamente illusorio. A tutto questo si aggiunge la tassa, senza distinzione per tutta la popolazione, per il sostentamento delle spese del progetto GERD.

La fine dei lavori è prevista per la metà del 2022, ma potrebbe protrarsi per la mancanza di fondi stranieri, dovuta alla pandemia che ha diminuito le esportazioni.

La GERD è al momento completa all'80%, ma pare vi siano continue interruzioni nel procedimento, decise dalla azienda italiana responsabile del progetto, per mancati pagamenti e ritardi di diverso tipo, in gran parte imputabili alla instabilità della stessa Etiopia, dove è in atto una guerra di cui i media occidentali non parlano, la guerra nel Tigray, regione contesa e dalla marcata presenza separatista, dove i ribelli hanno preso il controllo di Macallé, il principale centro abitato.

Le risorse che lo Stato impiega nel combattere le formazioni ribelli del TPLF (Fronte Popolare di Liberazione del Tigray), vanno sottratte a quelle destinate al progetto GERD, e al momento pare si aggirino intorno ai 3 miliardi di dollari, poco meno del costo totale dell'impresa.

Sebbene il governo prometta nuova prosperità economica, le ricadute sono in realtà legate ad altre variabili, anzitutto per quanto riguarda la fornitura di energia delle zone rurali, che richiede grossi investimenti per una vasta rete elettrica, al momento inesistente. Stesso discorso per i vantaggi energetici, di cui si potrà cominciare a parlare quando saranno finalizzati grandi progetti specifici, al momento solo sulla carta.

Etiopia e Russia hanno firmato il 13 luglio un accordo di cooperazione nel settore militare che si concentrerà sulla trasformazione della capacità della forza di difesa nazionale soprattutto nel settore della tecnologia, ma nell'immediato a poco servirà per contenere le mire separatiste del TPLF, con cui le trattative sono portate avanti da Demeke Mekonnen, vice-premier e vice-ministro degli Esteri, in contatto quasi costante anche con i governi di Kenya, Tanzania, Uganda, RDC, Congo, Eritrea, Sud Sudan, Rwanda e Burundi. Ciò che si vuole evitare è soprattutto una guerra dichiarata, che ad alcuni analisti appare sempre più vicina ad ogni fallimento politico e diplomatico, come il recente vertice di Kinshasa.La soluzione è forse nelle mani del governo sudanese, schierato con l'Egitto, dopo esser stato a lungo dalla parte di Addis Abeba, che con la GERD aveva promesso la fine delle inondazioni in intorno alla capitale e l'elettrificazione delle campagne sudanesi.

Lo sfondo geopolitico è decisamente complesso, con mille variabili e una base assolutamente instabile. Il Cairo ha rivolto appelli ufficiali agli Stati Uniti, alla Banca Mondiale, alla Unione Africana, ma ogni mediazione s'è rivelata inefficace. Il capo della diplomazia egiziana ha chiamato il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, per chiedere una riunione del Consiglio di Sicurezza, che però si è conclusa senza un voto, ma soltanto con la dichiarata disponibilità a facilitare ulteriori colloqui...

Rimane la questione Al-Fashaga, tra i fiumi Setit e Atbara, secondo i sudanesi parte integrante del loro territorio, ma negli ultimi vent'anni è stata pacificamente invasa da migliaia di contadini etiopi e dalle milizie di etnia Amhara. Oltre a questo, dopo dieci anni di fallimenti diplomatici, rimangono poche possibilità prima che le sponde del Nilo si trasformino in un campo di battaglia. Al posto di un conflitto che avrebbe conseguenze incalcolabili, potrebbe esser siglata un'intesa per accompagnare verso un futuro migliore tutta la regione del bacino del Nilo, che nel 2050 conterà più di 600 milioni di persone.

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