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CPI - Le acrobazie giuridiche del ministro Tajani

Roberto Roggero* - Il diritto internazionale parla chiaro: ii Paesi che hanno sottoscritto la Convenzione di Roma, che istituiva la Corte Penale Internazionale, sono di fatto obbligati a rispettarne le decisioni e le sentenze, quindi i tentativi di arrampicata sugli specchi del ministro degli Esteri Antonio Tajani, sono una inutile fatica.

In effetti è una bella patata bollente. Il mandato di arresto a Benjamin Netanyahu per crimini di guerra a Gaza è l’argomento che domina il G7 di Fiuggi, l’ultimo a guida italiana e l’ultimo dell’era Biden. Fra meno di due mesi Donald Trump entrerà per la seconda volta alla Casa Bianca, e il primo risultato concreto sarà un nuovo allontanamento fra USA ed Europa.

La conferma dei dazi in preparazione ha congelato le speranze europee, ma sulla decisione della Corte Penale Internazionale lo strappo tra Europa e Usa rischia di realizzarsi ancora prima. Lo stesso Josep Borrell (Commissario UE per la politica estera), a sua volta a fine mandato, ha messo in chiaro: “Gli americani non riconoscono la giurisdizione della Corte, facciano un po’ quello che gli pare, ma gli europei devono implementare quella decisione: è un obbligo, non un’alternativa”, ovvero: tutti gli Stati membri, Italia compresa, non hanno scelta se non quella di impegnarsi ad arrestare Netanyahu e Gallant dovessero trovarsi sul loro territorio.

Un obbligo che “disturba” l’ambigua politica italiana, come Antonio Tajani ieri ha lasciato intendere. Una politica che lavora dietro le quinte per trovare un “testo comune” sull’argomento in questione, e sul quale i Paesi del G7 possano ritrovarsi nella dichiarazione finale. Difficile, se non impossibile, trovare un punto d’equilibrio che tenga insieme l’apertura di canali con il governo israeliano, e al tempo stesso rispettare la sentenza della CPI.

Eppure il governo italiano è determinato a tenere insieme le due esigenze, la prima perché l’obiettivo è la pace, ha ribadito più volte Tajani, e per negoziare i cessate-il-fuoco in Libano e a Gaza; il secondo perché l’Italia è legata a corda doppia alla CPI, non solo come firmataria, ma come creatrice stessa di questa istituzione, perché è stata la diplomazia italiana a spingere negli anni ‘90 per l’istituzione di una Corte Internazionale in grado di perseguire i responsabili di crimini di guerra. Senza dimenticare il fatto che quella storica Convenzione, non a caso, si chiama Convenzione di Roma.

Da quando la CPI ha emesso i mandati d’arresto, il governo italiano ha cercato di prendere tempo, dando mandato ai suoi esperti giuridici di trovare una via d’uscita. Tajani ha evocato presunte immunità per i capi di governo stranieri, come possibile paravento che escludesse un effettivo arresto di Netanyahu. Idea che non ha base e appare quanto mai strampalata, altrimenti non si spiegherebbe la pressione internazionale su Vladimir Putin, ricercato anch’egli dalla stessa CPI per i crimini di guerra commessi in Ucraina.

Ipotesi ancor più ardita, ma presa in considerazione: accordarsi su una sospensiva del processo di fronte alla CPI contro Netanyahu finché è in corso la guerra. Il che rischierebbe però di tramutarsi in un ulteriore, drammatico incentivo al capo del governo israeliano a proseguire a oltranza nel massacrare la popolazione civile di Gaza, come i parenti degli ostaggi lo accusano di fare già da mesi pur di non aprire la fase politica post-conflitto, che segnerebbe la morte politica del premier israeliano.

Un rebus, insomma, che Borrell lascerà al successore Kaja Kallas, e che appare come vero e proprio bastone fra le ruote della trama che i diplomatici italiani stanno provando a tessere. E l’ambiguità della politica italiana viene intanto confermata dalla dichiarazione dello stesso ministro Tajani, che ha dichiarato: “Siamo amici di Israele ma dobbiamo rispettare il diritto internazionale”. Per salvare la faccia, Stati Uniti, Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna potrebbero semplicemente spostare il focus dell’attenzione nel documento finale, per aggirare il tema dell’effettivo arresto di Netanyahu, che in ogni caso non avverrà se il premier israeliano si terrà alla larga dai Paesi a rischio, e insistere sull’urgenza del doppio cessate-il-fuoco in Libano e nella Striscia di Gaza, prima che arrivi il ciclone Trump. Anche se però la guerra, sia in Libano che a Gaza, rimarrebbero pur sempre le decine di migliaia di morti innocenti e di feriti, mutilati, traumatizzati, causati dalla follia israeliana, per la quale i responsabili devono in ogni caso rendere conto alla giustizia internazionale, perché non è possibile fare fronte unico contro Putin, dipinto come il cattivo numero uno (come se il presidente ucraino Zelenski fosse uno stinco di santo...) ed essere invece divisi quanto si tratta di Netanyahu.

(*Direttore responsabile Assadakah News)

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