Roberto Roggero* - Non si vedeva da vent’anni, dai tempi della seconda Intifada del 2002, un’incursione di tale portata in Cisgiordania. Nella notte tra martedì e mercoledì, l’esercito israeliano ha lanciato attacchi coordinati contro Jenin, Nablus, Tubas e Tulkarem con raid aerei e veicoli corazzati. Adesso anche Fatah ha imbracciato le armi e la situazione sta sfuggendo dal controllo. Almeno dieci i morti, due a Jenin, quattro in un villaggio vicino e altri quattro in un campo profughi fuori Tubas. Fra questi due bambini di 13 e 15 anni, come denuncia l’Alto Commissariato Onu per i diritti umani, che ha condannato la risposta sempre più militare degli israeliani, che viola il diritto internazionale e rischia di infiammare una situazione già esplosiva. Una quindicina i feriti, tra cui un bambino.
Non è noto il numero degli arresti. Scopo dell’operazione, ha detto il ministro degli Esteri, Israel Katz, è smantellare le infrastrutture terroristiche islamiste iraniane che si troverebbero nei campi di Jenin e Tulkarem. I militari avrebbero imposto il coprifuoco nella parte orientale di Jenin. Gli abitanti del campo di Nur Shams, a est di Tulkarem, avrebbero avuto quattro ore per andarsene dopo essere stati perquisiti.
Contraddittorie le notizie sugli ospedali. Per il governatore di Jenin, l’esercito avrebbe comunicato l’intenzione di far irruzione nell’ospedale governativo. Fonti dello stesso hanno riferito che i soldati controllano le ambulanze in transito per accertare che non nascondano uomini armati o armi. Il ministero della Salute ha messo in guardia dalle ripercussioni dell’assedio e si è appellato alla comunità internazionale e alla Croce Rossa.
Attaccato anche il campo profughi di Shuafat, a nord-est di Gerusalemme, dove è chiuso il check-point d’accesso. Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen ha interrotto la visita in Arabia Saudita per tornare a Ramallah a «seguire l’evoluzione dell’aggressione». Partito lunedì per Riad, dove ha incontrato il principe ereditario Mohammed bin Salman, sarebbe dovuto andare al Cairo per verificare la possibilità di entrare dal Sinai nella Striscia di Gaza, previo consenso israeliano. Il portavoce della presidenza, Nabil Abu Rudeineh, ha definito il raid “la prosecuzione di una guerra contro il nostro popolo” che non porterà sicurezza né stabilità a nessuna delle parti. “Pagheranno il prezzo”, ha minacciato.
L’irruzione è avvenuta all’indomani dei violenti scontri tra coloni armati e palestinesi, con l’intervento dei soldati, che avevano provocato un morto e tre feriti nel villaggio di Wadi Rahhal. E avevano spinto Hamas a invocare una giornata «di rabbia» in Cisgiordania. Mercoledì il gruppo ha dichiarato che l’operazione israeliana «fa parte di un piano più ampio per espandere la guerra di Gaza».
Dopo il massacro del 7 ottobre che causò 1.200 morti israeliani e 252 rapiti, la popolarità di Hamas è cresciuta vertiginosamente fra i 3 milioni di abitanti della Cisgiordania. Crollato il consenso per Fatah, il partito del presidente Abu Mazen, accusato di essere corrotto. Da mercoledì l’ala armata di Fatah ha annunciato di partecipare attivamente ai combattimenti, compreso il lancio di ordigni contro l’esercito. I terroristi della Jihad islamica, che si sta radicando nei campi profughi, parlano di “guerra aperta da parte dell’occupante israeliano” che accusano di voler “trasferire il peso del conflitto sulla Cisgiordania, imporre sul terreno un nuovo Stato e annetterlo”.
La resistenza a Gaza è la stessa a Jenin o Nablus, seconda città palestinese in Cisgiordania con 200mila abitanti, uno degli obiettivi dell'offensiva israeliana in queste ore. Circa tre milioni di persone vivono sul territorio dell'Autorità Nazionale Palestinese stabilito dagli accordi di Oslo, ma a chiazza di leopardo con 500mila coloni arroccati negli insediamenti e sempre più aggressivi dopo il 7 ottobre. Le strade principali sono controllate dall'esercito israeliano, della brigata Giudea-Samaria, comandata dal generale Avi Bluth, che si è formato nella scuola religiosa dell'insediamento di Eli. Oltre a posti di blocco, un muro di separazione, basi e postazioni, enormi cartelli scritti in rosso, all'ingresso delle zone palestinesi, ricordano agli israeliani: “Entrate a vostro rischio e pericolo”.
Dal 7 ottobre più di 600 palestinesi sono morti durante i raid e scontri in Cisgiordania. E a fine giugno gli arrestati erano 9450. Nablus è sempre stata una bomba a orologeria con i suoi quattro campi di rifugiati oramai trasformati in fatiscenti quartieri. Quello di Balat è stato fondato dall'esodo del 1948 e viene pattugliato dai miliziani palestinesi in armi. Non solo i gruppi più estremisti, ma pure le brigate Al Aqsa, costola armata del partito Fatah, il partito del presidente palestinese Abu Mazen, sono in guerra. La loro sede a Balat, sulla strada principale del campo trasformata in mercato, è stata sventrata dal missile lanciato da un drone. I 35mila abitanti vivono in edifici vetusti divisi da viottoli dove a malapena passa un uomo, con i muri tappezzate dai graffiti della Palestina libera.
Gli scontri, soprattutto notturni, in campi come quello di Jenin sono quasi quotidiani. La cittadina obiettivo principale assieme a Tulkarem dell'operazione di ieri si è guadagnata il nome di “piccola Gaza” per i continui combattimenti. Le strade sono in mano alle brigate Ezz al-Din al-Qassam di Hamas con il vessillo verde e alla Jijahd islamica con la bandiera nera. La polizia dell'Autorità palestinese, che risponde all'anziano leader Abu Mazen, rimane chiusa dentro un fortino per non intervenire durante gli scontri. Gli israeliani si aprono la strada con i bulldozer tirando giù tutto, i palestinesi rispondono con trappole esplosive e razzi anticarro.
(* Direttore resonsabile Assadakah News)
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